mercoledì 15 novembre 2023

Socrate 3 - La missione del filosofo e la condanna a morte.

  Classi 3° A-B-C Linguistico


Socrate e la missione del filosofo.

Se Socrate si sente molto lontano dall'antropomorfismo della religione ufficiale della pólis, tuttavia non si professa né agnostico, né ateo. Non soltanto avverte come divina la sua missione, ma spesso fa riferimento a una voce divina (il demone), che Socrate afferma di sentire dentro di sé, una specie di oracolo interiore che gli dice ciò che non deve fare, che gli fa provare vergogna se agisce in modo ingiusto. Socrate ne parla come una voce interiore che vieta e vincola al controllo della ragione ogni azione da lui compiuta, una voce che egli definisce come divina. Socrate parla del divino come di qualcosa di soprannaturale: il divino, a cui fa riferimento Socrate, non ha niente a che vedere con le divinità che i filosofi precedenti hanno collocato nella natura e sottoposto al controllo della ragione, ma Socrate presenta il proprio daímon come un'espressione di moralità razionale, non trascendente all'uomo, ma a lui interiore, una coscienza o consapevolezza interiore che è frutto di un rigoroso esame interiore e del conosci te stesso socratico. Egli è fortemente convinto che la divinità non può volere per l'uomo alcun male, quindi è convinto che non si possa influenzarne il favore mediante riti propiziatori: gli dei non sono interessati a concedere premi o castighi, non sono in funzione dei desideri degli uomini, ma Socrate è convinto che gli dei vogliono per gli uomini ciò che vorrebbero gli uomini stessi, se questi ultimi fossero virtuosi.
In questa credenza del sacro, ben si inserisce la missione che Socrate sente di dover compiere e che egli chiama divina: risvegliare la sua città, punzecchiarla come un tafano, un insetto molesto, smascherare e svergognare tutti coloro che scambiano per valori il potere, la fama, la bellezza fisica.
È per lui una missione «pubblica», anzi «politica», che testimonia come per Socrate il bene della città, supera la politica tradizionale, in quanto riguarda l'uomo, ogni uomo.
La sua missione, tuttavia, viene ritenuta pericolosa: è per questo motivo che gli avversari politici si accaniscono contro di lui, ricorrendo come scusa al motivo religioso, e lo accusano di empietà, come già era successo ad Anassagora e Protagora.

Il processo e la condanna.

Socrate, durante il processo, ha sempre sottolineato la propria volontà di stare lontano dalla politica militante che considera molto pericolosa. Lo racconterà Socrate stesso nella sua difesa davanti ai giudici. Socrate fa riferimento alla battaglia delle Arginuse, nel 406 a. C., vinta da Atene, ma con costi umani e materiali molto onerosi: i generali ateniesi, che avevano deciso la strategia del combattimento, tra cui anche il figlio minore dello statista Pericle, vennero accusati della distruzione di ben 25 navi e della morte di duemila combattenti. Accusati, inoltre, di non aver prestato un adeguato soccorso ai naufraghi e recuperato le salme dei caduti in battaglia, vengono sottoposti a processo. È in questa occasione che Socrate si trova a svolgere, in modo del tutto casuale, il suo primo incarico pubblico: sorteggiato per far parte dei cinquanta Pritani, questi dovevano guidare la giuria popolare cioè il Consiglio dei Cinquecento. È appunto ricoprendo tale ruolo che Socrate, unico tra tutti i Pritani, si pronuncia contro la condanna a morte in massa dei generali delle Arginuse, denunciando pubblicamente l'illegalità di tale decisione, in quanto le leggi di Atene prevedevano che gli imputati dovessero essere giudicati uno per volta e non tutti assieme.
Manifestando la stessa coerenza morale, Socrate si comporta allo stesso modo durante il regime dei Trenta Tiranni.  Nel 404, infatti, Atene viene sconfitta da una coalizione di póleis capeggiata da Sparta. In questo clima matura ad Atene il colpo di stato, capeggiato dagli aristocratici e guidato da Crizia, zio di Platone, e appoggiato da Sparta. Viene così rovesciato il governo democratico e si instaura così il regime dei Trenta Tiranni. Molti democratici vengono uccisi o mandati in esilio. Socrate non condivide la politica del regime oligarchico e quando Crizia gli ordina di andare ad arrestare il democratico Leonte di Salamina, Socrate si rifiuta di obbedire, nonostante la sua amicizia personale con Crizia e con molti altri giovani aristocratici, che erano critici rispetto al governo democratico. Il governo dei Trenta Tiranni dura appena otto mesi: è tanto inviso tale regime che la stessa Sparta appoggia una controrivoluzione democratica per rovesciare il regime aristocratico dei Trenta Tiranni e Socrate, che sarebbe stato sicuramente arrestato per la sua disobbedienza, a causa della breve durata del regime, riesce ad aver salva la vita. La democrazia viene così restaurata ad Atene, ma i democratici vincitori vivono in un clima di diffidenza e di sospetto: vivono nella paura di tutti coloro che osano criticarli e li ritengono pericolosi nemici della pólis. Da qui la diffidenza che il regime democratico nutre nei confronti di Socrate che, essendo stato per lungo tempo amico di Crizia e di molti giovani aristocratici di buona famiglia, viene visto come il pericoloso maestro degli antidemocratici, ma anche di Alcibiade, ritenuto il massimo responsabile della disastrosa spedizione in Sicilia.
È in questo clima di sospetti della restaurata democrazia che si verifica il processo a Socrate, nel 399 a. C, in cui viene accusato di corrompere i giovani con nuove dottrine, cioè di voler introdurre ad Atene nuove divinità, di mancato rispetto delle leggi della città e di comportamento immorale ed empio, cioè non rispettoso delle divinità tradizionali. Il processo viene raccontato, passo per passo, da Platone, suo discepolo all'epoca del processo, nell'Apologia di Socrate. Anito, un esponente del partito democratico, è l'ideatore e il promotore del processo. L'obiettivo di Anito non è fare di Socrate un martire, facendolo condannare a morte, ma quello di screditarlo davanti all'opinione pubblica di Atene, che lo reputava essere un uomo onestissimo e incorruttibile: Anito mirava, dunque, a mettere Socrate in una situazione imbarazzante, in modo da costringerlo, pur di salvarsi la vita, a scendere a patti con la propria coscienza. Ma Socrate sorprende tutti per il proprio comportamento del tutto inatteso: si difende dalle accuse rivoltegli da Anito, Meleto e Licone, ma non si preoccupa minimamente di mettersi in salvo, né tanto meno di fuggire. Socrate, invece, smonta tutte le accuse che gli vengono rivolte, da quella fatta di Aristofane nelle Nuvole di essere un pericoloso sofista, a quelle più recenti che gli vengono mosse, dimostrandole come delle calunnie montate ad arte. Socrate chiude la propria difesa dinanzi ai giudici non chiedendo pietà, come tutti si aspettavano, ma giustizia. Dalla votazione della giuria l'esito appare schiacciante: 280 sono i voti contrari all'innocenza di Socrate, mentre 220 risultano essere i voti a lui favorevoli. A questo punto il condannato poteva chiedere una pena alternativa alla pena di morte, come l'esilio ad es., ma Socrate si rifiuta di fare tale richiesta in quanto convinto di essere innocente e consapevole che, anche in esilio, continuerebbe a svolgere la propria missione, venendo così scacciato da tutte le città in cui potrebbe trovare asilo. Al contrario, Socrate provoca gli stessi giudici, chiedendo di essere alloggiato nel Pritaneo e di essere mantenuto a spese dello Stato perché, nessuno meglio di lui, si è adoperato costantemente per il bene e la felicità dei suoi concittadini. Alla seconda votazione della giuria i voti a lui contrari aumentano: 360 voti contrari, contro 140 a lui favorevoli. Socrate viene così condannato a morte, ma non mostra di avere alcuna paura: Socrate è infatti certo che un uomo che si è sempre comportato bene, non può temere nulla di male, né in vita, né in morte. La condanna a morte non viene eseguita subito, mentre infatti Socrate è in carcere, Critone, amico e discepolo, lo va a trovare in carcere per proporgli la fuga, ma Socrate rifiuta categoricamente la proposta: Socrate, infatti, afferma che le leggi non vanno mai violate in quanto solo le leggi salvano l'uomo dalla bestialità e lo collocano nella civiltà umana. Afferma inoltre che non si deve mai commettere ingiustizia, nemmeno quando la si riceve: il rispetto delle leggi è un dovere dettato dalla ragione per ogni cittadino e nemmeno una condanna ingiusta può per Socrate giustificare la scelta di sovvertire l'ordine civile che vige tra gli uomini, neanche per salvarsi la vita. Questa posizione socratica richiama da vicino quella di Protagora e di altri sofisti: pur essendo invenzione dell'uomo, e quindi convenzionali e non naturali, le leggi umane sono necessarie per salvare l'uomo dalla bestialità e dalla barbarie e il loro mancato rispetto pone il cittadino al di fuori del consesso umano, lo priva delle proprie radici umane, isolandolo dagli altri uomini e rendendolo un asociale, un diverso. Socrate rifiuta tutto ciò e non cede alle suppliche e alle lusinghe di parenti e amici perché si dia alla fuga. Giunge così l'ultima ora di vita di Socrate prima della condanna a morte, secondo quanto racconta Platone nel Fedone. Il carceriere porta a Socrate la tazza della cicuta, lo invita a berla e a camminare per la stanza sino a quando non sentirà più le gambe. Dopo di ciò, non appena Socrate non sentirà le gambe, dovrà sdraiarsi e aspettare: man mano che il veleno fa il suo effetto e il freddo della paralisi progredisce, Socrate si accomiata dagli amici e dai parenti, rivolgendo a Critone una preghiera: quella di sacrificare un gallo ad Esculapio, il dio della medicina, come ringraziamento per la propria guarigione. Era infatti consuetudine all'epoca fare un'offerta ad Esculapio per recuperare la salute, dopo una malattia, o come ringraziamento dell'avvenuta guarigione. Socrate quindi considera la morte imminente come la guarigione dalla malattia della vita e chiede a Critone di ringraziare il dio per lui per tale liberazione.
La cicuta, veleno divenuto famoso proprio grazie a Socrate, provocava la cosiddetta morte fredda, cioè un raffreddamento progressivo di tutto il corpo, che parte dalle estremità inferiori. Una forma di morte dolorosa e progressiva, in grado di produrre la paralisi del corpo in un arco di tempo abbastanza lungo. Si trattava, pare, di un veleno raro e costoso, che si concedeva solo ai condannati benestanti, che erano in grado di pagarsela, preferibile ad altre pene inflitte all'epoca. Tale morte, per gli storici, più umana e pietosa rispetto ad altre forme di condanna, anche se molto idealizzata nel racconto di Platone, rappresentava il mezzo ideale per sbarazzarsi, senza clamore, di nemici scomodi e pericolosi in modo silenzioso ed efficace.