Classi 3°A/B/C Linguistico
Aristotele: la Politica.
Mentre per Platone la politica aveva rappresentato lo scopo più importante della filosofia e dell'attività del filosofo, per Aristotele essa rappresenta soltanto una delle tante scienze indagabili dalla mente umana: se per Platone era compito dei filosofi essere alla guida dello Stato e la saggezza è conoscenza che richiede un lungo tirocinio formativo che, attraverso lo studio delle diverse scienze, culmina nello studio della filosofia, per Aristotele invece i filosofi dovevano dedicarsi alla conoscenza e lasciare gli impegni politici ad altri individui specializzati, collocando la politica tra le discipline pratiche, relative al comportamento, e non in seno alla conoscenza, relativa alle scienze teoretiche.
La differenza sostanziale però nell'approccio alla politica dei due filosofi è rappresentata dal metodo con cui trattano le problematiche ad essa peculiari.
Platone delinea infatti un modello di stato ideale a cui tutti gli uomini dovrebbero guardare per risolvere la crisi politica imperante e non sono possibili soluzioni alternative. Aristotele, invece, procede mediante l'applicazione del metodo induttivo: egli raccoglie e analizza le costituzioni delle prime pólis greche e di altri Stati, partendo dalla studio della realtà storica, allo scopo di ricavarne gli aspetti generali.
Tale indagine permette ad Aristotele di creare una classificazione delle diverse forme di Stato e di giungere alla conclusione che non esiste una costituzione perfetta per ogni popolo, quanto piuttosto quella che meglio si adatta ai diversi popoli e alle diverse epoche storiche.
Riflettendo sui vantaggi e sugli svantaggi di ognuna, giunge nei primi due libri della Politica, a delineare le caratteristiche preferibili perché lo Stato possa garantire la felicità materiale e morale dei cittadini.
Aristotele tuttavia è d'accordo con Platone nel ritenere che tra etica e politica ci sia un legame molto stretto: l'individuo infatti è subordinato al bene dello Stato e che lo Stato ha un compito formativo verso i propri cittadini.
Aristotele definisce l'uomo come animale sociale per sua natura al punto che “... Chi non può entrare a far parte di una comunità, chi non ha bisogno di nulla, bastando a sé stesso, non è parte di una città, ma è una belva o un dio” (Politica I, 2, 1253a, p. 67).
La prima istituzione sociale, individuata da Aristotele, è la famiglia che comprende i coniugi, i figli e gli schiavi: egli considera infatti naturale la schiavitù, così come la naturale inferiorità della donna rispetto all'uomo, a cui spetta il comando della casa.
Analizzando il ruolo sociale ed educativo della famiglia, Aristotele affronta il problema dell'economia (da oikonomía = amministrazione della casa). Egli distingue due diversi tipi di acquisizione dei beni:
- i beni necessari alla sopravvivenza;
- la crematistica, cioè l'acquisizione di ricchezze superflue.
Le merci prodotte hanno un duplice uso, quello relativo all'oggetto in sé, ad es. un paio di scarpe, e quello di poter essere scambiati con altre merci: lo scambio in principio avviene mediante il baratto, cioè lo scambio di merci, poi si ha l'introduzione della moneta, e la finalità di procurarsi altre merci passa in secondo piano e diventa predominante l'accumulo della ricchezza.
Aristotele condanna l'accumulo di ricchezza per sé stessa, e con essa il commercio di professione, sostenendo che solo la proprietà necessaria a garantire una vita dignitosa alla famiglia, risulta essere naturale e proficua.
Attraverso l'aggregazione di diverse famiglie si arriva alla seconda istituzione sociale indagata da Aristotele: il villaggio.
L'unione di più villaggi porta alla formazione di uno Stato, o meglio di una città-stato, la pólis.
Anche se lo Stato si forma cronologicamente per ultimo, secondo Aristotele occupa il primo posto dal punto di vista logico, in quanto é il tutto che dà significato alle parti e svolge verso i cittadini un'azione educativa, indirizzandoli verso la virtù.
Ogni Stato è caratterizzato dalla costituzione, che ne rappresenta la forma. Aristotele classifica le diverse forme di stato a seconda di chi esercita il potere e del fatto se lo esercita a proprio vantaggio, o per il proprio utile, o a vantaggio dei propri governati.
Se il potere risulta essere nelle mani di un solo uomo si avrà che:
- nel caso di un governo finalizzato al bene dei governati, si avrà la monarchia, mentre se degenererà a favore dell'utile di uno solo si avrà la tirannia, come degenerazione della monarchia.
Se il potere risulta essere nelle mani di pochi uomini si avrà che:
- nel caso di un governo finalizzato al bene dei governati, si avrà l'aristocrazia, mentre se degenererà a favore dell'utile dei pochi, si avrà l'oligarchia, come degenerazione dell'aristocrazia.
Se il potere risulta essere nelle mani della maggioranza, nel caso di un governo finalizzato al bene dei governati, si avrà la politía, mentre se degenererà a favore dell'utile della maggioranza a scapito degli altri, si avrà la democrazia come degenerazione della politía.
La democrazia viene intesa da Aristotele in senso negativo, come la costituzione che affida il potere alla maggioranza che, essendo costituita da poveri e incapaci, facilmente lo userà per il proprio tornaconto, trascurando così il bene comune, mentre la politía è intesa come una democrazia dove i cittadini affidano le cariche pubbliche agli uomini migliori dal punto di vista morale, che eserciteranno il potere in vista del bene comune.
Le vicende politiche e biografiche vissute da Socrate non potevano non influenzare in senso negativo il giudizio di Aristotele sulla democrazia, sopratutto ateniese.
Non esistendo una costituzione perfetta per tutti i popoli, ma per quelli barbari, non greci, secondo Aristotele, è preferibile la monarchia, in quanto gli individui di queste popoli non hanno le caratteristiche necessarie per partecipare alla gestione dello Stato. Per i Greci, invece, la forma migliore di governo è la politìa, in quanto viene definita dal filosofo come la giusta via di mezzo tra gli estremi negativi dell'oligarchia e della democrazia, permettendo di evitare così la gestione autoritaria del potere, in particolare la tirannia.
Tracciando così le caratteristiche dello Stato migliore, negli ultimi due libri della Politica, Aristotele applica il criterio della medietà.
Afferma così che è preferibile che domini il ceto medio, che può svolgere incarichi politici in quanto trattasi di piccoli e medi proprietari terrieri, dotati di schiavi e non direttamente coinvolti nel lavoro dei campi, il più adatto a mantenere la solidità dello Stato.
Anche le città devono essere di medie dimensioni, né troppo piccole e né troppo grandi, sia dal punto di vista demografico e territoriale: essa deve essere infatti abbastanza popolosa da essere autosufficiente, ma non così numerosa da far sì che i cittadini si conoscano reciprocamente (ciò non riguarda gli stranieri o meteci, le donne, gli schiavi e gli operai, tutte categorie di individui che non hanno diritto di voto nella pólis. L'esigenza di fondo è quella di garantire la partecipazione di tutti i cittadini e che quindi lo Stato sia a misura d'uomo.
Affinché una città possa essere autonoma deve garantire alcune funzioni che devono essere svolte da classi diverse: sono infatti necessari contadini che forniscano il cibo, operai che producono manufatti, guerrieri per la difesa, commercianti, governanti e sacerdoti. Tuttavia commercianti, contadini, di solito schiavi, e gli operai vanno considerati cittadini, in quanto tali occupazioni non permettono di coltivare la virtù. I cittadini devono occuparsi soltanto della difesa della città, della sua amministrazione e del culto. Aristotele respinge però l'idea di tre classi distinte perché i guerrieri potrebbero impadronirsi del potere con la forza e ipotizza che invece che ogni cittadino svolga questi compiti in base all'età: da giovane sarà un guerriero, da adulto governante e da anziano sarà un sacerdote.
Lo stato descritto da Aristotele è molto diverso da quello di Platone: Aristotele critica la comunione delle donne e l'abolizione della proprietà privata, la rigida suddivisione in classi, ma condivide con Platone l'idea che lo Stato deve educare i cittadini alla virtù e ha un ruolo formativo importante nei loro confronti. Anche per quanto riguarda l'educazione è compito precipuo dello Stato impartirla a tutti i cittadini e a spese dello Stato.
L'opera aristotelica Politica presenta così due livelli diversi: i primi libri analizzano infatti le diverse forme politiche esistenti nella realtà, gli ultimi due presentano invece un modello politico utopistico, anche se più concreto rispetto a quello di Platone.
A causa di questi motivi gli studiosi dubitano che gli otto libri della Politica risalgano tutti allo stesso periodo temporale di stesura, e che non siano stati raccolti da Aristotele in forma di trattato, ma che li abbia scritti in periodi diversi e separatamente, per venire poi riuniti in un unico trattato successivamente da Andronico di Rodi.
La retorica e la poetica.
Le scienze poietiche (da pòiesis = produzione), comprendono tutte le attività che sono finalizzate alla produzione di oggetti o di cose sensibili. Tali scienze si possono ritenere delle arti, e non delle tecniche, perché nella Grecia antica riguardavano non soltanto il processo di produzione in sé stesso, ma anche una forma di conoscenza che, oltre a comprendere le regole, definiva le ragioni di esse e le competenze necessarie per raggiungere buoni risultati.
L'arte è trattata da Aristotele nella Poetica, di cui ci è pervenuto solo il primo libro sulla tragedia.
Come già aveva fatto Platone, anche Aristotele considera l'arte un'imitazione o mimesi della realtà, ma senza le connotazioni negative che Platone aveva associato a tale termine.
Se per Platone infatti l'arte in quanto copia della realtà, a sua volta copia imperfetta dell'idea, allontanava l'uomo dalla verità e per tale motivo andava condannata, per Aristotele, invece, essa rappresenta, in virtù dell'immanenza delle essenze delle cose, un'imitazione della realtà che non allontana dalla vera conoscenza, ma ci aiuta a comprenderla meglio.
Le opere d'arte non sono quindi una semplice imitazione delle cose, ma ne colgono i caratteri generali, trasformando un singolo oggetto o una determinata persona, in un tipo che rappresenta tutti gli altri. Aristotele definisce i personaggi di una tragedia come dei simboli e non degli individui, perché rappresentano le passioni umane non in modo soggettivo, ma oggettivo e universale.
Aristotele assegna quindi un ruolo positivo alla poesia che è in grado di trasformare le emozioni e le passioni individuali dell'artista, in linguaggio e vissuti comprensibili da tutti gli uomini, trasformandole da particolari in universali.
In questo senso la poesia é nettamente superiore alla storia che tratta di vicende particolari di singoli popoli o di gruppi di individui e dei loro interessi: la funzione conoscitiva dell'arte risulta quindi essere superiore a quella della storia.
Ma allora l'arte, in quanto si occupa di realtà, è verosimile, per il fatto che, pur non avendo la stessa pretesa di universalità della scienza, è in grado di descrivere in modo verosimile passioni ed eventi che possono essere vissuti da ogni uomo, in qualsiasi epoca storica o culturale.
La condanna che Platone aveva espresso sull'arte aveva una duplice motivazione:
- conoscitiva, allontanando l'uomo dalla vera realtà delle cose, rappresentata dalle idee e dalla loro conoscenza, l'uomo finiva per inseguire illusioni e false conoscenze soggettive;
- morale, le passioni suscitate dall'arte secondo Platone indeboliscono il controllo razionale dell'individuo e ne corrompono l'anima, l'uomo trascura così il perseguimento del Sommo Bene e si lascia fuorviare dalle passioni (es. della biga alata).
Secondo Aristotele pur essendo vero che l'arte è in grado di suscitare forti emozioni negli spettatori, sopratutto la tragedia, rappresentandole sulla scena, permette allo spettatore di vedere tali passioni rappresentate dall'esterno, oggettivate, e quindi di diventarne consapevole e di liberarsene.
Aristotele definisce tale processo come catarsi. Alcuni studiosi attribuiscono inoltre a tale termine il significato morale di sublimazione, cioè di purificare le passioni dello spettatore dei loro aspetti più deteriori, soggettivi e irrazionali, permettendogli di elevarle e di nobilitarle. Ciò può avvenire mediante la distanza che il palcoscenico pone tra le passioni vissute dallo spettatore e quelle agite dall'attore, che vengono percepite in modo meno personale, ma comunque coinvolgente.
Aristotele sostiene che la poesia, la tragedia in modo particolare rappresentava nella Grecia antica la forma artistica per eccellenza, deve seguire delle regole precise quali quella delle tre unità:
- l'unità di tempo, di luogo e d'azione, cioè le vicende rappresentate devono essere rappresentate sulla scena in modo logico e consequenziale, permettendo allo spettatore di poter cogliere lo snodarsi dell'intera vicenda senza alcuna discrepanza o interruzione del contenuto rappresentato.
Aristotele si occupa inoltre di esaminare il ruolo svolto dal coro nelle tragedie, dove il coro rappresentava il ruolo di voce narrante e di commento lirico rispetto alle vicende narrate.
Platone, oltre ad aver condannato l'arte, aveva accomunato ad essa anche la retorica: egli affermava che la retorica si colloca rispetto alla filosofia, come la cosmesi sta alla ginnastica, vale a dire chela retorica abbelliva esteriormente il corpo, mentre la filosofia lo rendeva effettivamente migliore.
Platone affermava quindi che la retorica, in quanto arte della persuasione, non ha niente a che fare con la verità e quindi va rigettata.
Aristotele invece sostiene la piena legittimità della retorica a patto che non aspiri alla certezza propria delle scienze teoretiche, legate al necessario, ma piuttosto alla ragionevolezza delle proprie conoscenze. Il procedimento sillogistico sul quale si basa la retorica (entimena), non è infatti un giudizio dimostrativo, ma persuasivo, si basa cioè su premesse probabili e non certe.
Un es. di entimema è “sono un uomo e quindi posso sbagliare”, sottintendendo la premessa “gli uomini possono sbagliare”: l'oratore può a volte, per rendere più brillante e accattivante il proprio discorso, sottintendere una delle premesse, dandole per universalmente condivise.
Ma quando ciò avviene senza che ci sia l'accordo unanime dell'uditorio, o si assume come tale qualcosa che non lo è, allora si ha un falso entimema che deve essere evitato.
Aristotele analizza le regole della retorica allo scopo di rendere più efficace il discorso: la sua lunghezza non deve essere eccessiva, occorre fare spesso ricorso ad esempi concreti, è consigliabile partire sempre da premesse universalmente accettate, ecc.