venerdì 24 novembre 2023

Hume 1 - La credenza, la conoscenza e l’abitudine.

 Classi 4°A/B/C Linguistico

 Hume: la scienza dell'uomo.

Hume individua, come altri filosofi, diverse incongruenze e contraddizioni nel pensiero di Locke, ma vuole partire da prospettive diverse rispetto a quelle di Locke: i suoi interessi principali muovono, infatti, dal rapporto tra l'analisi della società, la partecipazione alla vita sociale e la riflessione intellettuale.
Il vero oggetto d'indagine per Hume é proprio l'uomo: sia che agisca o conosca, o che formuli dei giudizi morali o estetici, o che, piuttosto viva in società, l'unico obiettivo da indagare é proprio l'uomo.
Dalla scienza dell'uomo dipenderanno tutte le altre scienze, comprese la matematica e la fisica, poiché ogni scienza é compresa tra le conoscenze umane e deve quindi essere studiata a partire dal modo specifico in cui l'uomo organizza la realtà e riflette su di essa.
Hume, quindi, si incarica di sviluppare l'empirismo di Locke, evidenziandone però i limiti e portandolo a delle conseguenze radicali che, invece, Locke aveva accuratamente evitato di trarre dal proprio pensiero, tentando, nel IV libro del Saggio sull'intelletto umano, di offrire un fondamento razionale all'esistenza del mondo esterno, dell'io e di Dio, al punto da contraddire le sue stesse premesse e la sua critica al concetto di sostanza. L'obiettivo di Hume, oltre a quello di sviluppare la conoscenza, é lo studio scientifico dell'uomo, secondo un modello di scienza che fa esplicito riferimento alla fisica, almeno in una fase iniziale. Durante il Settecento illuminista, sopratutto in Francia, Hume verrà preso a modello dagli intellettuali proprio per il suo progetto di fondare una nuova scienza dell'uomo.

La teoria della conoscenza.

I punti di riferimento principali della filosofia di Hume sono Locke e Berkeley e da quest'ultimo Hume riprende la critica alle idee astratte e al nominalismo: Hume, infatti, afferma che le idee sono sempre legate all'esperienza e quindi risultano sempre essere particolari, anche se, a volte, vengono usate come segni di una grande quantità di esperienze e possono, quindi, apparire come astratte.
Noi, ad esempio, usiamo il termine di uomo riferendoci a esperienze specifiche e a individui particolari, ma Hume sostiene che un uso scorretto del linguaggio potrebbe indurci ad attribuire una realtà concreta a tale termine, totalmente distinta da degli individui concreti: da tali premesse, Hume deriva una concezione di empirismo più rigoroso rispetto a quello sviluppato da Locke.
Il punto di riferimento più importante, per Hume, rimane comunque Locke e, pur criticandolo in alcuni aspetti, a lui si ricollega per le sue idee più importanti.
Uno dei tanti aspetti che Hume riprende da Locke, ad esempio, é la nozione di criticismo: anche Hume, infatti, concorda con Locke circa la necessità di indagare l'intelletto allo scopo di evidenziare le possibilità e le modalità con cui l'uomo conosce il mondo e, soltanto successivamente, di porsi la domanda di che cosa esso sia in realtà. Tuttavia, in tale prospettiva, l'oggetto della filosofia, non consiste nell'indagare la realtà così come essa é realmente, ma piuttosto l'indagine del sapere che l'uomo costruisce della realtà; ecco perché Hume focalizza la propria attenzione non tanto sull'intelletto, ma sulla natura umana in quanto tale, consapevole che il sapere dell'uomo può essere definito soltanto facendo riferimento alla natura umana e alle sue caratteristiche. Poiché la natura dell'uomo non é soltanto limitata all'esistenza dell'intelletto, ma presenta anche altri aspetti, Hume giudica necessario ampliare la prospettiva adottata da Locke e comprendere in essa tutti gli aspetti peculiari propri dell'uomo.
La diversità dell'approccio filosofico tra Locke e Hume, si evidenzia già nei titoli delle loro opere più importanti: Locke aveva intitolato la sua opera più importante come Saggio sull'intelletto umano, mentre Hume propone un Trattato sulla natura umana, sottolineando la globalità della propria analisi. Come conseguenza di ciò, cioè di voler trattare la natura umana nella sua totalità e in tutti i suoi aspetti, Hume ne deriva anche l'obiettivo di riferire ad essa tutti i campi del sapere umano: dalla filosofia teoretica a quella pratica, dalla politica alla religione, Hume sostiene che tutti i diversi ambiti della conoscenza sono riconducibili alla natura umana e interpretabili basandosi su di essa. Hume, inoltre, sostiene che anche la matematica e la filosofia naturale rientrano in tale contesto e che la scienza rappresenta il nostro modo di vedere il mondo e non una qualche scoperta di verità oggettive e universali. Tutte le scienze, quindi, fanno riferimento alla natura dell'uomo perché, in quanto conoscenze umane, dipendono dalle sue facoltà mentali. Hume, quindi, afferma che, per poter progredire nelle scienze, é necessario conoscere l'uomo e ciò é ugualmente necessario anche per gli ambiti di conoscenza che, in apparenza, sembrano meno legati alle diverse caratteristiche umane, come la matematica o la scienza della natura, ma diventa assolutamente necessario per discipline come logica, etica e politica, direttamente riferibili alla natura umana. Il presupposto sottostante che rende possibile tale studio é l'uniformità della natura umana che é indagabile, secondo Hume, mediante l'utilizzo del metodo induttivo, che é il metodo proprio delle scienze della natura.
Anche per Hume, come per Locke, é necessario interrogarsi su quali siano gli strumenti conoscitivi dell'uomo e cosa possano conoscere, non limitando però alla sola indagine sull'intelletto umano, come aveva indicato Locke, ma prendendo in esame la totalità della natura umana e non soltanto la sua componente razionale, vista la finalità eminentemente pratica della conoscenza.
Hume, così come aveva fatto già Locke in precedenza, afferma che l'unica fonte di conoscenza dell'uomo non può essere che l'esperienza e che questa permette di distinguere tra impressioni e idee. Le impressioni sono date dai fenomeni nel momento in cui vengono percepiti, mentre le idee rappresentano il ricordo indebolito delle impressioni. A loro volta le idee, secondo Hume, possono distinguersi in idee semplici, quando corrispondono in modo immediato a un'impressione, e in idee complesse quando si presentano come come insiemi organizzati di più idee semplici. La relazione che secondo Hume lega le impressioni alle idee é la differenza di intensità presente nella singola esperienza: mentre le impressioni, che presentano la percezione diretta di un fenomeno, sono più vivaci e nitide, quindi più intense, le idee risultano esserlo in misura minore, visto che consistono nel ricordo di esperienze già accadute, a volte anche molto lontane nel tempo, o di combinazioni d’impressioni diverse. Il pensiero, dotato di una apparente notevole libertà creativa, in realtà per Hume non può fare altro che imitare o rielaborare il materiale che gli viene fornito dall'esperienza.
L'obiettivo che Hume si propone é quindi quello d’indagare come le idee nascano dall'esperienza e come dalle idee semplici si possano formare idee complesse. Se in precedenza Hume aveva sottolineato la necessità di ricondurre lo studio dell'uomo allo stesso metodo proprio delle scienze naturali, allora le idee devono essere indagate come degli oggetti del tutto indipendenti dalla volontà dell'uomo che le produce, ricercando nelle stesse idee i meccanismi di relazione, totalmente sganciate dall'intelletto.
A tale scopo Hume afferma che inizialmente le idee si presentano all'intelletto mediante la memoria e l'immaginazione. La memoria, infatti, ripete l'impressione originaria in forma attenuata, ma più incisiva rispetto alla semplice immaginazione che, però, é in grado di riorganizzare i dati e produrre nuove idee complesse, facoltà questa non possibile alla memoria, perché quest'ultima può soltanto riprodurre le impressioni, ma non crearle. Le idee complesse, secondo Hume, derivano dall'attività del singolo uomo, ma molte di esse risultano essere simili in tutti gli uomini: proprio per poter spiegare questa regolarità Hume deve prendere le distanze dalla prospettiva conoscitiva di Locke, ipotizzando l'esistenza di una dolce forza che determina l'associazione tra le idee.
Da una parte Hume attribuisce all'uomo la capacità di associare tra loro più idee, riferendola all'immaginazione reputata una facoltà umana completamente libera, dall'altra ipotizza l'esistenza di una dolce forza che, senza imporre associazioni necessarie tra idee semplici, guida l'immaginazione verso le associazioni di idee più facili da stabilire. In questo modo Hume prospetta che le associazioni tra idee siano riferibili ai caratteri delle idee semplici, piuttosto che ai capricci dell’immaginazione. Secondo Hume le leggi che determinano le modalità con cui le idee semplici si organizzano per formare le idee complesse sono quindi universali e totalmente indipendenti dalla volontà del soggetto, dal momento che agiscono in conformità della natura e delle loro caratteristiche peculiari: Hume, quindi, sostiene che il fatto stesso che tutti gli uomini abbiano le stesse idee complesse dimostrerebbe l’universalità di tali leggi. Egli propone quindi un inventario di tali leggi che giudica esauriente, basandosi sia sull’osservazione empirica, sia sull’utilizzo del metodo induttivo. Hume riconduce quindi l’associazione tra le idee alle seguenti leggi: la somiglianza, la contiguità nel tempo e nello spazio e la relazione di causa-effetto.
Hume, dopo aver quindi affermato che le idee complesse sono il risultato dell’associazione stabilita tra idee semplici, sottolinea come, mentre le idee semplici hanno una corrispondenza con la realtà, derivando dalla percezione, le idee complesse sono costruzioni completamente indipendenti dalla realtà, in quanto quest’ultime stabiliscono un rapporto tra le idee semplici e non tra i fatti.
Da tutto ciò ne consegue che non è possibile considerare la conoscenza delle idee come la vera conoscenza del mondo: la regolarità delle idee complesse è quindi spiegata dalla regolarità delle leggi che organizzano le idee semplici e non dall’esistenza di una realtà oggettiva da cui esse dovrebbero derivare: intelletto e realtà individuano, quindi, ambiti diversi e l’intelletto non rispecchia la realtà, né viceversa.
Hume distingue inoltre tra relazioni tra idee e materie di fatto: le prime, che sono inerenti all’ambito della logica e della matematica, sono determinate dalle operazioni del pensiero e sono necessarie, come nel caso due più due è uguale a quattro, in quanto tali relazioni non possono esistere diversamente da come sono; le materie di fatto, invece, risultano essere contingenti, cioè soltanto possibili, anche qualora si tratti di un fatto particolarmente evidente, come nell’esempio rappresentato dall’affermazione che il sole sorgerà domani, evento che appare probabile, ma comunque non certo. Mentre le relazioni tra le idee possono essere dimostrate mediante il ragionamento deduttivo, le materie di fatto si rifanno alla semplice induzione: sarà proprio la validità dell’induzione ai fini della conoscenza scientifica ad essere messa in dubbio da Hume che affermerà come le esperienze non siano scientificamente dimostrabili e, quindi, l’impossibilità di poter ricavare delle leggi universali e necessarie dai semplici fatti. Hume afferma che le materie di fatto possano soltanto essere accertate, ma non dimostrate, in quanto non necessarie, né utilizzate per prevedere eventi futuri.

La critica al principio di causalità.

Il problema della possibilità di poter generalizzare l’induzione, data da una singola esperienza soggettiva, viene da Hume definita come l’applicazione del principio di causalità ai fatti.
Se infatti gli stessi eventi sono riconducibili alle stesse cause e queste producono in modo necessario gli stessi eventi, come aveva affermato il filosofo Newton in una delle sue famose Regole, allora dovrebbe essere possibile affermare con assoluta sicurezza l’esistenza di un legame costante tra i fenomeni. Ma Hume puntualizza che il principio causale è un presupposto della conoscenza e non un legame necessario tra i fatti.
La critica di Hume alla causalità viene esemplificata mediante l’esempio di una palla da biliardo in movimento che ne urta una seconda che, a sua volta, inizia a muoversi.
Hume sostiene come sia solo l’esperienza a indurre l’uomo a credere che ci sia un nesso causale tra il movimento della prima palla e quello della seconda, mentre in realtà non è possibile alcuna dimostrazione razionale del rapporto di causa ed effetto. Hume afferma che se un uomo razionale e adulto, ma privo di qualsiasi esperienza, osservasse la palla mentre ne sta colpendo un’altra, egli non potrebbe inferire il movimento della seconda palla come effetto della prima: soltanto dopo aver osservato la stessa sequenza più volte finirà con anticipare nella propria mente il movimento della seconda palla, colpita dalla prima.
Secondo Hume, quindi, le connessioni di causa ed effetto che noi effettuamo quotidianamente non sono di tipo deduttivo in quanto, nel nostro esempio, il fatto che la prima palla si muova, non implica in alcun modo che si muova la seconda palla, fatto che può essere accertato con l’esperienza, ma non dimostrato come necessario.
Hume non intende con ciò contestare l’utilità pratica del rapporto di causa-effetto, ma sottolinea che essa è, appunto, pratica e non può essere supportata da nessun ragionamento logico. Inferire dalle esperienze passate delle previsioni circa eventi futuri non può essere considerato quindi una forma di ragionamento scientifico, in quanto richiederebbe che l’uomo riuscisse a dimostrare la regolarità della natura che rappresenta, invece, il presupposto da cui l’uomo parte per poter generalizzare le sue esperienze: Hume sostiene, infatti, che se anche il corso della natura finora è stato uniforme e regolare, ciò non significa che anche per il futuro debba essere così.
Il problema dell’esistenza della causalità è strettamente collegato a quello dell’induzione:
quanti episodi di una stessa esperienza, cioè quanto deve essere ampio il campione di osservazioni di uno stesso fenomeno, perché ci permetta di estendere le sue caratteristiche a tutti i fenomeni simili? Newton aveva tentato di rispondere a tale questione riferendosi alla costante regolarità dei fenomeni in natura, giungendo così a indicare la causalità quale metodo d’indagine della realtà, senza però riuscire a darne una giustificazione. Lo stesso Hume sottolinea come il postulato implicito che permette di rendere valida la causalità è rappresentato dalla regolarità della natura: assumere che la causalità sia il presupposto dell’esperienza, secondo Hume, significa che bisogna rinunciare alla pretesa di dimostrare la causalità mediante la stessa esperienza: ciò rende necessario ricercare un principio diverso per non rimanere intrappolati all’interno di un circolo vizioso.

L’abitudine e la credenza.

Hume critica il principio di causalità all’interno di una sezione dell’opera, intitolata Ricerca sull’intelletto umano, denominata “Dubbi scettici sulle operazioni dell’intelletto”.
Notevole importanza assume nel pensiero di Hume la nozione di abitudine che fungerà da sostegno del metodo induttivo.
Così come lo stesso Hume ha ben spiegato in precedenza, nell’esempio della palla, la successione causale non dipende da un legame logico tra due eventi, ma dall’abitudine: soltanto l’abitudine, infatti, permette all’uomo di spiegare la successione dei fatti dopo averli osservati per un numero rilevante di volte, attendendosi che tale successione mantenga una sua regolarità nel tempo, consentendo all’uomo di effettuare delle previsioni circa il presentarsi degli eventi nel futuro.
Hume, quindi, pur affermando che la causalità non ha nessuna giustificazione razionale, riconosce tuttavia che essa è parte del pensiero umano, in quanto l’uomo non può decidere se applicarla o meno agli eventi della vita quotidiana, nemmeno quando ne coglie l’infondatezza, e che essa possiede una finalità in quanto funge da legame necessario non per le cose, ma tra le idee. Basandosi sulla consuetudine, Hume propone una soluzione al problema dell’induzione, chiedendosi il perché l’uomo giudichi perfettamente logico passare dall’osservazione di cento esperienze simili alla formulazione di una legge universale, mentre considera del tutto illogico formulare tali leggi sulla base di una sola osservazione isolata: poiché in entrambi i casi il procedimento risulta essere lo stesso, cioè dall’osservazione fornita dall’esperienza alla sua generalizzazione, il numero dei casi osservati dovrebbe essere totalmente ininfluente. Tuttavia Hume conclude che il numero delle osservazioni risulta essere determinante proprio perché la legittimità dell’inferenza è data proprio dall’abitudine e non da una connessione logica.
L’abitudine è quindi per Hume il fondamento del metodo induttivo, e quindi della stessa scienza della natura, e la sua importanza risiede nel fatto che da essa deriva la credenza.
La credenza viene definita da Hume come un’associazione costante tra idee e non come una decisione della volontà: ogni volta che stabiliamo un’associazione tra due eventi, in seguito ad esperienze ripetute, come ad esempio tra il fuoco e il calore o tra la neve e il freddo, noi non possiamo decidere se applicare o meno la credenza, in quanto essa si presenta spontaneamente e in modo necessario, ogni volta che osserviamo uno dei due fatti.
Hume ritiene la credenza un istinto naturale, una modalità tipica del funzionamento mentale dell’uomo. L’uomo infatti, secondo Hume, d’inferenza in inferenza, tende a spiegare i singoli eventi attribuendoli a eventi precedenti, ma questa catena di inferenze deve alla fine poggiare su fatti che sono ritenuti veri e che non rimandano a delle spiegazioni ulteriori, cioè a delle credenze. Hume, quindi, sottolinea come il problema non sia quello di spiegare la verità o falsità di fatti che sono dall’uomo ritenuti veri, ma la natura della credenza di tali fatti.
La credenza agisce quindi congiungendo alcuni fatti, come nei nessi di causa ed effetto, nell’associazione di somiglianza o di contiguità spazio-temporale, in modo totalmente arbitrario, come fa anche l’immaginazione: ma, mentre l’immaginazione ci offre la consapevolezza che le associazioni sono stabilite da noi, senza alcuna pretesa di oggettività, la credenza la percepiamo invece come vera e necessaria, indipendentemente da noi, a causa della costante regolarità delle esperienze che noi facciamo quotidianamente, non riconoscendone invece la totale arbitrarietà.

Il mondo e l’io.

Hume, ridotta la causalità a un’associazione di idee che, in seguito all’abitudine, consolidano una credenza priva di qualsiasi fondamento oggettivo, procede allo stesso modo per analizzare le altre idee, come quelle di io, Dio e mondo, di spazio e tempo, che costituiscono tutte idee che sono riconducibili all’esperienza e che, associandosi insieme, assumono per l’uomo una consistenza oggettiva. Hume ritiene del tutto infondata la concezione di spazio e tempo assoluti che era stata avanzata da Newton in precedenza e utilizza le premesse dell’empirismo proprio per ribadire che noi percepiamo sempre soltanto spazi e tempi relativi, sotto forma di estensione e di durata, e che non siamo in grado di attribuire esistenza a ciò che non siamo in grado di percepire: lo spazio viene definito dal filosofo inglese come la disposizione delle cose fuori di noi, non come un qualcosa che si aggiunge alle cose, mentre il tempo rappresenta la semplice successione di eventi, come accade quando contiamo un numero dopo l’altro o ascoltiamo parole e note musicali che si susseguono.
La stessa forza di gravità, secondo Hume, rappresenta un mistero non dimostrabile per l’uomo: la scienza la può tentare di descrivere come il movimento di alcuni corpi su altri corpi, ma non è in grado di ricercare le cause invisibili di tali movimenti, in quanto ciò la metterebbe in aperta contraddizione con le premesse stesse della ricerca scientifica.
Il problema dell’esistenza del mondo esterno all’uomo viene affrontato da Hume in modo totalmente diverso dalla metafisica tradizionale. Egli muove il proprio ragionamento da due punti che reputa sufficientemente certi:

il primo punto è rappresentato dal fatto che non è possibile all’uomo fornire una qualche dimostrazione filosofica circa l’esistenza del mondo in quanto noi possiamo essere certi dell’esistenza di percezioni e di idee, ma non delle cose;

il secondo punto è dato dal presupposto che noi non possiamo nemmeno dubitare che le cose esistano in quanto esse rappresentano il fondamento di ogni nostra conoscenza e di ogni nostro comportamento.

Il problema per Hume non consiste quindi nello spiegare tanto l’esistenza del mondo, quanto di poter spiegare la nostra credenza in esso. In tal modo la sua analisi, abbandonata qualsiasi prospettiva metafisica riguardante il mondo in sé, viene ricondotta alla natura umana e al modo in cui l’uomo conosce il mondo. I meccanismi che spiegano la credenza in un mondo esterno all’uomo sono fondamentalmente due: la costanza delle nostre impressioni e la loro coerenza con le nostre esperienze passate. La prima riguarda il fatto che certe impressioni si ripetono nel tempo, alimentando così in noi la convinzione che esse provengono da oggetti esterni che hanno continuità di esistenza, anche durante gli intervalli tra le percezioni che da essi ne percepiamo.
Più complessa risulta essere la spiegazione del secondo meccanismo: poiché l’esperienza è data da percezioni che non risultano essere collegate fra loro, che non potrebbero permetterci quindi di attribuire un’esistenza continuativa al mondo e agli oggetti in esso presenti, allora l’uomo sente la necessità di effettuare delle connessioni tra le singole percezioni, basandosi sulla memoria e su esperienze precedenti allo scopo di conferire continuità al mondo esterno, rendendo così l’esperienza organica e razionale e non incomprensibile e bizzarra.
L’uomo, sostiene Hume, ha bisogno di costruirsi un’immagine coerente del mondo e lo fa presupponendo che alcuni elementi delle proprie esperienze passate siano ancora attualmente presenti anche nelle esperienze più recenti: Hume stesso fa l’esempio di un cameriere che gli porta la lettera di un amico, chiedendosi quali impressioni realmente proverebbe in tale circostanza: il rumore della porta, il suono dei passi del cameriere, la percezione della lettera e la lettura del suo contenuto. Tuttavia egli si chiede se questi elementi significativi avrebbero alcun significato se non fossero essi stessi inseriti all’interno di un contesto presupposto, ma non percepito: l’edificio di cui la camera è parte integrante, le scale che il cameriere deve aver salito, il battello che ha portato la lettera, il paese da cui l’amico ha scritto e così via.
Hume sostiene che l’esistenza di oggetti esterni e la loro continuità siano stabilite dall’intelletto per assicurare la coerenza dell’esperienza attuale rispetto a quella passata. Attraverso la ripetizione e l’abitudine, l’individuo forma nella sua mente un’idea precisa delle esperienze possibili e delle loro connessioni e, in modo automatico, inserisce ogni nuova esperienza nell’immagine complessiva del mondo in modo da renderla coerente con le altre esperienze passate, senza che vi sia alcun intervento della coscienza o della volontà. Questo ci porta ad attribuire una maggiore regolarità nelle nostre impressioni rispetto a quanta ne presentino realmente, portandoci a sostituire alla semplice similarità delle impressioni, l’identità dell’oggetto a cui tali impressioni sono riferite.
Anche per quanto riguarda la sostanza, il meccanismo funziona in modo simile: essa è una costruzione del nostro intelletto e non un fondamento reale dei fenomeni, sia riferita agli oggetti esterni, sia al nostro stesso io. Anche per quanto riguarda la sostanza sono la contiguità nello spazio e nel tempo e la similarità delle impressioni a determinarne l’esistenza nell’intelletto dell’uomo.
Così come in precedenza Hume aveva criticato la concezione di spazio e tempo assoluti di Newton, Hume sottolinea come il dubbio scettico non riguardi soltanto gli oggetti della conoscenza, ma anche il soggetto che conosce: infatti Hume afferma che l’identità personale, cioè l’io, non ha alcun fondamento, in quanto non è un oggetto dell’esperienza. Hume definisce ciò che chiamiamo io, la nostra identità personale, come un fascio di percezioni e di idee e non come una sostanza.
L’io quindi non è in alcun modo una sostanza e nemmeno un insieme stabile di fenomeni, poiché le percezioni che lo compongono variano continuamente: Hume, quindi, afferma che non esiste identità personale, ma soltanto una credenza di tale identità che è necessario spiegare. Anche in questo caso a muovere l’uomo a sviluppare tale credenza è l’esigenza di dare stabilità e coerenza alle impressioni di noi stessi. L’esigenza di conferire stabilità a oggetti ed esperienze che cambiano continuamente, spinge l’uomo a riconoscere in essi un’identità stabile che entrambi non possiedono.  
Avviene così che la continuità che non troviamo nel mondo, tendiamo ad affermarla in noi stessi, stabilendo connessioni tra idee e percezioni nella nostra memoria. L’io diventa così sinonimo di identità e di continuità nelle nostre percezioni: tale esigenza è, però, di natura pratica e non conoscitiva, in quanto Hume afferma che l’uomo ha bisogno di un mondo prevedibile e stabile per poter agire in esso.

Lo scetticismo di Hume e la conoscenza come probabilità.

Si è visto come per Hume non esiste alcuna corrispondenza tra le idee e i fatti che permetta di ritenere la conoscenza umana come oggettiva.
La posizione di Hume in ambito gnoseologico é quindi scettica: egli, prendendo in esame tutta la filosofia a lui precedente, con uno sguardo particolare al pensiero di Locke, analizza i diversi ambiti conoscitivi e i vari oggetti di conoscenza, a partire dalla sensazione sino al problema dell’esistenza di una realtà a noi esterna e alla natura dell’anima, per sottolineare la non dimostrabilità dal punto di vista razionale di tutta la conoscenza umana.
Nonostante queste premesse tuttavia Hume condanna lo scetticismo radicale: infatti se è pur vero che non è possibile dimostrare in alcun modo la verità delle nostre conoscenze, l’uomo tende comunque a conferirle un carattere di certezza sia nel suo impiego nella vita quotidiana, sia nella ricerca scientifica. Hume afferma che lo scetticismo moderato assume il senso di circoscrivere i limiti della conoscenza dell’uomo, riferendoli all’esperienza e ai fenomeni, tracciando un metodo di conoscenza: la linea di confine tra conoscenza quotidiana e scientifica è data proprio dall’esperienza visto che ciò di cui non si può avere esperienza non può neppure costituire oggetto di scienza.
I limiti della conoscenza umana, secondo Hume, sono due: da un lato tutto ciò di cui non si ha esperienza è inconoscibile; dall’altro anche le cose di cui facciamo esperienza non rappresentano una conoscenza delle cose stesse, ma soltanto le impressioni che tali cose esercitano sui nostri sensi.
La corrispondenza tra impressioni e la realtà esterna non può essere dimostrata come un legame necessario, ma soltanto ipotizzata per via induttiva, cioè è soltanto probabile.
Ogni previsione circa il futuro, cioè la formulazione di una legge scientifica di validità universale, ha per Hume carattere probabilistico e rappresenta una semplice proiezione delle nostre esperienze passate che diventa certezza quando la frequenza degli stessi eventi si presenta con una certa regolarità: se, per esempio, nella nostra esperienza passata ogni volta che abbiamo avvicinato la mano al fuoco ci siamo scottati, tendiamo a considerare il rapporto tra i due eventi come causalità certa e necessaria; tuttavia Hume sostiene che, così come per la probabilità, anche in questo caso si tratta di un tentativo di generalizzare le esperienze passate che però non dimostrano razionalmente l’esistenza di alcuna causalità.
La conoscenza, anche quella scientifica, è quindi soltanto probabile e presenta un grado di affidabilità variabile, non dimostrabile. Se per quanto riguarda l’aspetto teorico tale conoscenza risulta essere soltanto probabile, per quanto riguarda l’aspetto pratico, invece, la regolarità di alcune esperienze creano in noi l’aspettativa di poter effettuare delle previsioni che ci permettono di regolare i nostri comportamenti per il futuro, basandoci appunto sulla loro regolarità riscontrata da noi nel passato. Pur non potendo essere dimostrate, le leggi scientifiche possono comunque essere utilizzate: Hume, quindi, nega la possibilità per l’uomo di poter giungere a una conoscenza certa, ma non esclude la possibilità di una conoscenza pratica, fondata sul metodo induttivo.