Classi 4°A/B/C Linguistico
La Critica della ragion pratica: Parte Seconda.
L' autonomia della morale.
Secondo Kant la ragione garantisce anche l'autonomia della morale, che Kant descrive nella terza formula dell'imperativo categorico:
“Non compiere alcuna azione secondo una massima diversa da quella suscettibile di valere come legge universale, cioè tale che la volontà, in base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice”.
La volontà può considerarsi universalmente legislatrice se non é condizionata da nessuna autorità superiore, neppure da quella divina, ma é essa stessa giustificazione della propria massima. Ciò é possibile nella misura in cui la massima é fondata sulla ragione ed é, quindi, autofondata. Kant critica e analizza le diverse morali eteronome, cioè non autonome, che considerano il comportamento morale dipendente da fattori diversi rispetto alla sola ragione. I motivi che possono determinare il comportamento dell'uomo possono essere soggettivi, cioè validi per il singolo individuo, oppure oggettivi, ritenuti validi per tutti, interni, relativi all'interiorità, oppure esterni e relativi all'ambiente.
Se può sembrare strano, in apparenza, trovare tra i motivi delle morali eteronome i fattori interni, cioè quelli che sono relativi all'individuo, Kant con l'autonomia della morale non intende assenza di condizionamenti esterni, ma assenza di motivazioni o di finalità particolari, che superano l'ambito della ragione universale: se scelgo di agire per conseguire un piacere, la morale non é più autonoma, in quanto finalizzata al raggiungimento del piacere.
Anche i comportamenti che si adeguano ai condizionamenti esterni, come l'educazione e la società in cui noi viviamo, non sono morali, in quanto non sono frutto di una libera scelta: essi sono dettati dall'abitudine, come aveva sostenuto Hume, e non dalla ragione, e cambiano da una comunità all'altra, quindi sono relativi e non universali.
I motivi oggettivi vengono da Kant definiti in questo modo perché ritiene che siano validi per tutti gli uomini allo stesso modo. Kant sostiene, quindi, che, per quanto nobili possano essere i motivi che fondano la morale dall'esterno, tuttavia essi ne minano l'autonomia, rendendola subalterna non alla ragione, ma a fattori estrinseci. Se un individuo si astiene dal rubare per ubbidire ad un comandamento religioso, egli sarà un uomo pio, ma non morale, in quanto il suo comportamento non sarà autofondato, ma dipenderà appunto da Dio. Inoltre tale massima, in questo caso “non rubare”, non sarebbe universale, perché escluderebbe gli atei, gli agnostici e chi professa una religione diversa.
Il bene, il male e la morale dell'intenzione.
Kant afferma che tutto ciò che può essere determinato dalla volontà é oggetto della ragion pratica e presuppone quindi la libertà: senza la possibilità da parte dell'uomo di poter scegliere come agire non ci sarebbe alcuna morale. Kant, infatti, sottolinea come, senza libertà, noi potremmo soltanto descrivere i comportamenti (etica descrittiva), ma non ci sarebbe alcuna possibilità di stabilire quali comportamenti siano buoni e quali no, quali comportamenti andrebbero seguiti. Kant chiarisce che la libertà non sia inerente alla concreta possibilità di agire, ma riguardi la volontà dell'uomo: la morale, infatti, analizza la conformità della volontà nei confronti della legge morale, totalmente sganciata dalle circostanze concrete che possono impedirne l'attuazione.
In tal modo la moralità per Kant é espressione della volontà che può decidere di comportarsi secondo le norme morali pur non potendo poi attuare tale decisione per i più svariati motivi non controllabili dal singolo individuo: se vedo una persona gettarsi da un ponte, ad esempio, potrei volerla aiutare, e tale libera espressione della mia volontà sarebbe morale, ma potrei non poterla aiutare perché mi trovo su un autobus o perché non so nuotare; ma tale impedimento non toglierebbe nulla alla moralità della mia decisione, indipendentemente che l'abbia attuata, oppure no. Kant afferma, quindi, che l'oggetto della ragion pratica é quello di stabilire, basandosi sulla ragione, ciò che risulta essere bene e ciò che invece é male.
Kant a tale scopo distingue in via preliminare il bene dal piacere e il male dal dolore. Egli sostiene che il termine bene, dal latino bonum, viene tradotto in tedesco con due termini distinti: Gute e Wohl. Il primo significa buono inteso in senso morale, mentre il secondo definisce ciò che é ritenuto buono per l'individuo, quindi ciò che per lui é piacevole ed é per lui fonte di benessere. Il bene, nella prima accezione, é tale in sé ed é universale, in quanto fondato sulla ragione. Da tale distinzione emergono due importanti conseguenze:
- la prima é che il bene non determina la legge morale, ma che anzi é bene ciò che risulta essere conforme alla legge morale e dunque da essa determinato;
- la seconda é che la morale é determinazione della volontà, prescindendo dal fatto che l'azione morale possa produrre conseguenze utili o dannose sia per l'individuo che la compie, sia per la società in cui quell'individuo vive ed agisce.
Se, ad esempio, denuncio una scorrettezza di qualcuno, compio un'azione morale indipendentemente dalle conseguenze per lui o per me stesso, mentre se non dico nulla o mento, compio un'azione immorale anche se lo facessi per aiutare un amico.
La morale quindi per Kant non deve considerare il bene o il male in relazione alle conseguenze delle azioni di un individuo, ma in relazione alla volontà con cui egli ha agito: per questo motivo la morale kantiana é anche denominata come “morale dell'intenzione”.
La fondazione della Metafisica dei costumi e l'etica critica.
La riflessione di Kant sulla morale, come sappiamo, non inizia con la Critica della ragion pratica, ma con l'opera intitolata Fondazione della metafisica dei costumi del 1785.
In quest'opera Kant si poneva già il problema della fondazione della morale e distingueva tre diversi ambiti d'indagine presenti all'interno della filosofia: logica, fisica ed etica.
Poiché la logica é per sua natura formale e priva di uno specifico oggetto di indagine, in quanto indaga le leggi del ragionamento, Kant sostiene che la filosofia debba occuparsi della fondazione della fisica e dell'etica.
A tale scopo Kant differenzia una metafisica della natura e una metafisica dei costumi, con l'intento di individuare i principi fondamentali che governano i due diversi ambiti d'indagine: al loro interno egli distingue una parte razionale e una parte empirica.
Per quanto riguarda l'etica, Kant sostiene che la parte razionale dell'etica sia rappresentata dalla morale, poiché composta da norme morali universali e fondate sulla ragione, mentre la parte empirica é rappresentata dall'antropologia pratica, cioè dallo studio dei costumi che cambiano da un popolo ad un altro, e da un'epoca ad un'altra, in quanto rappresentano leggi legate alle diverse circostanze, cioè appunto costumi.
Kant afferma di volersi occupare soltanto della morale, la parte razionale, e di voler dedicare l'opera alla sua fondazione, cioè ad identificare il principio più importante di essa.
Tale impostazione dell'opera é la stessa che Kant seguirà poi nella Critica della ragion pratica, della quale anticipa tematiche ed argomenti che riprenderà poi nella prima parte della Critica.
Kant, già nella Fondazione della metafisica dei costumi, sostiene infatti che la volontà può essere buona soltanto se sganciata dai condizionamenti esterni, riferita soltanto alla ragione.
Ciò implica una netta contrapposizione tra la norma morale e la sensibilità e da ciò ne consegue che la norma morale si presenti come un dovere che contrasta sia il piacere, sia l'utile individuale. La morale assume, quindi, una valenza razionale ed universale, prescindendo dall'individualità del singolo uomo, e si concretizza nell'imperativo categorico secondo la prima formula di esso, cioè del volere come legge universale. Più avanti nell'opera Kant definisce anche le altre due leggi o formule dell'imperativo categorico.
Quest'opera definisce già sia i fondamenti e sia le caratteristiche fondamentali della morale (l'universalità, la formalità, la morale del dovere, et.), che Kant riprenderà poi in modo più esteso ed esaustivo nella Critica: i contenuti della Fondazione costituiranno infatti, in modo maggiormente articolato, il primo capitolo del primo libro della Critica.
Tuttavia la trattazione di tali temi non costituisce tra le due opere kantiane una semplice sovrapposizione di trattazioni: tali opere si distinguono sia per lo stile della trattazione, sia per l'organizzazione interna voluta dall'autore. Mentre la Fondazione parte da osservazioni ed esperienze comuni per giungere a definire i principi fondanti della morale, la Critica della ragion pratica parte da tali principi per procedere in modo sistematico e deduttivo alla loro applicazione concreta; inoltre la Fondazione risulta più ricca e coinvolgente per i molti esempi di concreta vita quotidiana che sono riferiti da Kant, mentre la Critica risulta essere più completa nella trattazione, ma anche più tecnica e sistematica.
Le antinomie della ragion pratica e i postulati della morale.
Se la Critica della ragion pratica presenta la stessa organizzazione di quella dedicata alla conoscenza, tuttavia non presenta un'estetica, in quanto Kant é convinto che la morale non possa fondarsi sul piano dell'esperienza e dei fenomeni; inoltre la dialettica della morale si differenzia da quella conoscitiva, in quanto consente a Kant di recuperare, anche se non dal punto di vista conoscitivo, l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima.
Anche in ambito pratico la dialettica pretende di derivare, dalla realtà finita e condizionata, la totalità incondizionata che dal punto di vista conoscitivo si esemplificava nelle idee di io, Dio e mondo, mentre in ambito morale si identifica con l'idea del sommo bene, dato dall'unione di virtù e di felicità. Ma, secondo Kant, neppure l'idea di sommo bene può vincolare la volontà libera, in quanto altrimenti non sarebbe più libera, ma condizionata dalla ricerca dello stesso sommo bene.
Il sommo bene é quindi da ricercarsi esclusivamente nel dovere per il dovere, cioè senza scopi ulteriori. Alla ricerca del sommo bene Kant affianca l'antinomia della ragion pratica:
“ O il desiderio della felicità dev'essere la causa che muove verso la massima virtù, oppure la massima virtù dev'essere la causa efficiente della felicità”.
La prima tesi secondo Kant é sempre falsa, perché se la virtù fosse motivata dal desiderio della felicità, allora la morale sarebbe eteronoma, cioè avrebbe un fine esterno a sé stessa.
Per quanto riguarda la seconda tesi Kant sostiene che non sia possibile, nell'ambito fenomenico della causalità fisica, che la virtù, perseguita in modo disinteressato, determini la felicità, ma noi non possiamo escludere che questo legame sia stabilito, in ambito noumenico, da Dio: in tal caso lo stesso Kant afferma che la virtù sarebbe perseguita in modo autonomo, senza ricercare altri fini. Kant sostiene quindi che l'uomo non si comporta moralmente se finalizza il suo agire al conseguimento della felicità, ma anche che é abbastanza naturale che l'uomo si aspetti che alla virtù debba corrispondere la felicità, cioè che speri di essere felice in un mondo non fenomenico.
Tale possibilità non é possibile sul piano fenomenico e deve postulare un essere onnipotente e giusto che la possa garantire.
Kant, quindi, afferma che la speranza di conseguire il sommo bene porta a presupporre l'esistenza di Dio: tale esistenza non é dimostrabile razionalmente, ma possiamo solo sperarla come postulato della ragion pratica, cioè come la condizione che rende possibile il sommo bene.
Per lo stesso motivo Kant ammette altri due postulati della ragion pratica:
- la libertà, in quanto se non vi fosse una volontà libera, non sarebbe possibile alcuna scelta morale e ciò distruggerebbe la possibilità stessa dell'agire morale;
- l'immortalità dell'anima, in quanto l'uomo, costituito di ragione e sensibilità, deve adeguare la volontà alla ragione, superando le condizioni che derivano dall'utile personale, dalla sua sensibilità e dall'interesse personale. Ma, sottolinea Kant che, per quanto l'uomo possa sforzarsi, non potrà mai del tutto annullare la propria componente sensibile e le proprie passioni, raggiungendo la perfetta coincidenza tra volontà e ragione, che definiamo come santità, ma che deve progressivamente avvicinarsi al raggiungimento di tale ideale: ma tale processo richiederebbe un processo all'infinito, in cui l'uomo possa migliorare sempre più sé stesso: ciò permette di presupporre l'immortalità dell'anima.
Affermare la libertà, l'immortalità dell'anima e l'esistenza di Dio solo in ambito pratico e morale e non in quello teoretico e conoscitivo, pone però dei problemi: lo stesso Kant chiarisce che questo non può significare assumere Dio come causa della natura, in quanto ogni spiegazione della natura deve necessariamente rimanere sul piano dell'esperienza e ricondotta alle leggi della fisica.
Kant distingue fermamente i due piani della conoscenza e della morale e soltanto su quello morale ha un senso postulare l'esistenza di Dio. Kant sottolinea come Dio rappresenti esclusivamente una risposta ai problemi esistenziali dell'uomo, a una nostra esigenza morale, ma che tale postulato non ha alcuna pretesa di validità in campo fisico, ne tanto meno può spiegare la realtà in termini scientifici. Il ruolo dei postulati della ragion pratica non é quello di garantire la morale, come lo stesso Kant sottolinea,in quanto la morale é autofondata, ma permettono all'uomo di sperare di poter un giorno realizzare la perfetta coincidenza tra virtù e felicità, pur senza che egli possa vantare più di una ragionevole speranza, e non certezza. L'uomo, infatti, può essere virtuoso anche senza tali postulati ma, data la fragilità della natura umana, essi ne sostengono il volere secondo ragione: se noi ci comportiamo bene, é perché é razionale fare così, senza altra finalità e i postulati servono soltanto in quanto strumenti per rafforzare la debolezza della nostra volontà e spingerci verso la perfezione dell'agire morale.
Il primato della ragion pratica.
Dalle due Critiche esaminate emerge un dualismo apparentemente insanabile: da un lato la conoscenza, con le sue esigenze di necessità, dall'altro la morale che non può prescindere dalla libertà: la prima rappresenta la scienza e la possibilità di conoscere il mondo fenomenico, basato sul determinismo, la seconda di ipotizzare l'agire morale come autofondato e razionale, ma legato al mondo noumenico e ai suoi postulati.
Kant é profondamente consapevole di tale problema che tenta di risolvere affermando il primato della ragion pratica su quella pura e conoscitiva: entrambi gli ambiti risultano ugualmente fondati e legittimamente dimostrati e rappresentano due mondi indipendenti.
Kant sottolinea come si possa fare scienza senza tener in alcun conto delle esigenze morali, così come non risulta legittimo applicare i principi della scienza all'ambito morale.
L'uomo, però, rappresenta un'unità integrata di sensibilità e ragione e non può prescindere dal conoscere, così come non può esentarsi dall'agire morale.
Kant afferma che nella vita quotidiana l'uomo sia costretto a compiere delle scelte che lo devono portare a privilegiare l'agire morale sulla conoscenza della realtà fenomenica, in quanto l'uomo é un essere morale e non soltanto un essere organico: ciò deve portare ad un primato della ragion pratica nel nostro comportamento, anche se non nella nostra conoscenza del mondo. Secondo Kant tale primato deriva da un'esigenza morale, visto che l'uomo non é in grado di dimostrare la verità dei postulati pratici, in quanto sia l'esistenza di Dio, come l'immortalità dell'anima non sono dimostrabili dal punto di vista scientifico: Kant afferma infatti che se l'uomo avesse la certezza dell'esistenza di Dio, dell'inferno e del paradiso, tutti gli uomini sarebbero sicuramente buoni, ma non avrebbero alcun merito, in quanto non ci sarebbe più alcuna ragione di effettuare una scelta morale consapevole, ne tanto meno che l'uomo esercitasse la propria libertà nell'agire morale.