Classi 4°A/B/C Linguistico
Il liberalismo e i suoi presupposti.
Pur non essendo il liberalismo una invenzione di Locke, tuttavia egli viene riconosciuto come il filosofo che ne ha fornito una chiara ed organica teorizzazione, rispetto alla frammentaria concezione politica esistente fino a quel momento.
Il liberalismo, da distinguere in modo netto rispetto al liberismo, teoria squisitamente economica che sarà sviluppata ad opera di economisti come Adam Smith, che teorizzerà il non intervento dello Stato in materia economica, é definibile come quella teoria politica che si basa sull'esistenza di diritti naturali inalienabili, propri di ogni uomo, che sono preesistenti alla nascita di uno Stato, e che presuppone la libertà e l'indipendenza per tutti gli uomini.
Dal punto di vista politico, il liberalismo si impone in Inghilterra con la rivoluzione del 1689, negli Stati Uniti con la lotta per l'indipendenza, iniziata nel 1776, e in Francia con la rivoluzione del 1789.
Quale concezione politica dilagante, si diffonde ben presto in tutta Europa, accompagnando il movimento della prima Rivoluzione Industriale che caratterizzerà tutto l'Ottocento europeo e non solo.
Gli inizi del liberalismo sono riconducibili nel movimento del giusnaturalismo che aveva affermato sia l'esistenza dei diritti naturali, sia il principio della sovranità popolare, che contraddistinguono tale movimento.
Nel pensiero di Locke emergono i principi che caratterizzeranno il liberalismo anche successivamente:
- l'individuo assume valore di per sé stesso, indipendentemente dalla comunità o dallo Stato in cui vive e, tale valore assoluto é giustificato proprio dall'esistenza dei diritti naturali. Locke sosterrà infatti che, qualunque sia la forma di governo presente, devono essere garantiti i diritti civili quali la libertà religiosa, di pensiero e di parola, di stampa e di associazione, di iniziativa economica, etc;
- L'organizzazione politica é sempre preceduta dalla formazione di una società, costituita dalle libere relazioni tra i cittadini, che prende il nome di società civile. Secondo Locke la società civile é in grado di esistere in modo ordinato sulla base dei soli diritti naturali e quindi, dopo la nascita dello Stato, deve comunque mantenere la sua esistenza autonoma rispetto al potere politico. Mentre, quindi, la società civile deve reggersi su principi propri, lo Stato ha semplicemente il compito di garantire il pacifico svolgimento della dinamica sociale ad esso preesistente, tutelandone la preminenza. Ne consegue che i rapporti economici e sociali tra i cittadini devono essere regolati sulla base di accordi e di contratti privati, senza che vi sia alcuna ingerenza da parte dello Stato;
- Il potere politico deve essere esercitato entro limiti ben definiti che sono tracciati da una parte da una costituzione, che perpetua il patto originario tra i cittadini che ha permesso l'esistenza stessa dello Stato; dall'altro dalla divisione dei poteri, in particolare quello esecutivo e quello legislativo, che devono controllarsi in modo reciproco, onde impedire abusi di potere e soprusi a carico dei cittadini.
Stato di natura e diritti naturali.
Il pensiero politico e religioso di Locke risulta essere fortemente ancorato alle vicende storiche dell'epoca in cui il filosofo si trovò a vivere. La prima lettera sulla tolleranza, infatti, é datata 1685, in occasione dell'ascesa al trono cattolico del sovrano Giacomo II, evento che non aveva mancato di suscitare forti preoccupazioni in merito alle possibili persecuzioni o discriminazioni religiose. I Due trattati sul governo risalgono, invece, ai primi anni ottanta, in risposta alle pressioni borghesi di critica all'assolutismo e di forte spinta verso una monarchia costituzionale.
Queste opere di Locke verranno pubblicate soltanto dopo l'avvento della gloriosa rivoluzione, in concomitanza con l'instaurazione del nuovo assetto politico, allo scopo di giustificarlo e di attribuire a tale nuovo sistema politico un fondamento filosofico soddisfacente. Il contenuto di tali opere supera però il semplice contributo storico: il secondo trattato e la lettera, infatti, costituiscono il manifesto del liberalismo, concezione politica che risulterà essere di fondamentale importanza nei secoli successivi.
I punti cardine del liberalismo, che riprende molte assunzioni di filosofi precedenti, ma che Locke ha il merito di organizzare per la prima volta in modo organico:
L'esistenza dei diritti naturali, o giusnaturalismo, tra cui importanti sono la conservazione della propria vita, la libertà e la proprietà;
La sovranità popolare, contro la sovranità per diritto divino;
La costituzione, intesa come impegno anche da parte dei governanti;
La divisione dei poteri mirata ad evitare rigurgiti di assolutismo e finalizzata al controllo reciproco degli organi di governo. Tutti questi aspetti, riuniti all'interno di uno schema ideologico e politico omogeneo, permettono di unire la società civile da una parte, intendendo con tale termine tutte le associazioni non governative di semplici cittadini, e il potere politico.
Locke espone nei Due trattati, e la sviluppa sopratutto nel secondo, la teoria che lega tra loro questi diversi aspetti, offrendo una legittimazione filosofica del nuovo assetto politico e sociale. Locke partecipa attivamente alla seconda rivoluzione inglese e pubblica i Due trattati all'indomani di tale rivoluzione, nel 1690, in concomitanza con l'instaurazione della monarchia costituzionale di Guglielmo d'Orange. Locke stesso afferma di aver scritto i Due trattati con l'intento di offrire una cornice teorica e un fondamento filosofico a tale rivoluzione.
Nel primo trattato Locke dimostra che il potere risiede nell'insieme dei cittadini e non nel sovrano, quindi passa ad esaminarne l'origine e gli sviluppi. L'analisi di Locke muove dall'analisi dello stato di natura, considerato antecedente a qualsiasi assetto politico costituito che sia basato sul diritto e sul potere. Locke tenta di ricostruire i passaggi successivi attraverso cui é avvenuto il passaggio dallo stato di natura ad uno civile e, nel far ciò, si discosta notevolmente dalla concezione politica del filosofo empirista Hobbes che reputava lo stato di natura essere totalmente precedente a qualsiasi regola o legge: Hobbes, infatti, riteneva che in origine ogni uomo rivendicasse per sé ogni diritto e libertà, anche a discapito di quella altrui, e la legge compare soltanto dopo il patto tra gli uomini che rinunciano a tutti i loro diritti e prerogative egoistiche; Locke, invece, sostiene che lo stato di natura non sia ancora politico, ma che sia già sociale, in quanto in esso risultano essere presenti delle leggi che deriverebbero dalla natura stessa dell'uomo in quanto essere razionale. Le leggi di natura sarebbero, perciò, dettate dalla ragione e, in quanto razionali, costitutive della società e non una loro conseguenza. Secondo Hobbes lo stato di natura é uno stato privo di diritti, e tali diritti vengono introdotti soltanto in seguito al patto, mentre Locke, in accordo con il giusnaturalismo, considera invece come propri dello stato di natura alcuni diritti fondamentali quali la conservazione della vita, la libertà e la proprietà privata. Per Locke il potere politico non é, come per Hobbes, costitutivo del diritto, ma assume il carattere di una convenzione limitata, finalizzata ad assicurare il rispetto della legge di natura e a impedire violazioni che provocherebbero lo stato di guerra, garantendo così una migliore qualità della vita umana: con tutto ciò Locke non esclude la possibilità che vi siano dei contrasti, ma sostiene che tali contrasti non siano inevitabili e, quando anche si verifichino, che possano essere regolati mediante la legge naturale. Lo Stato quindi, secondo Locke, non deve sostituirsi al diritto naturale, ma soltanto utilizzare la forza necessaria per imporre il rispetto della legge di natura a chi non é in grado di farlo spontaneamente.
Tra tutti i diritti naturali, Locke attribuisce molta importanza alla proprietà, discostandosi da Hobbes che, al contrario, ne negava l'esistenza nello stato di natura. Hobbes sostiene, infatti, che ogni uomo ha il diritto alla propria conservazione e ad usare tutto ciò che risulta essere funzionale a tale scopo, in quanto Dio stesso avrebbe dato agli uomini la terra in comune: proprio l'uguale diritto di tutti su tutto sarebbe quindi, per Hobbes, la causa della guerra di tutti contro tutti e, allo scopo di garantire la pace, é il potere del sovrano a stabilire la proprietà privata e a regolare la distribuzione della ricchezza tra i sudditi. Per Locke, invece, la proprietà privata costituisce un diritto naturale che é conseguenza dell'esercizio del lavoro che ogni uomo svolge onde garantire la propria sopravvivenza: ciò porta Locke a sostenere che la proprietà privata deve necessariamente precedere il patto tra gli individui che istituisce la società e che tale diritto risulta essere legittimato unicamente dalla ragione dell'uomo. La proprietà privata costituisce quindi un diritto naturale in quanto chi modifica qualcosa con la propria azione o lavoro, per esempio la terra, vi mette qualcosa di proprio, stabilendo così una relazione tra la cosa modificata e se stesso: ne conseguirà che, dato che ogni uomo ha il diritto sulla propria persona, ciascuno avrà anche il diritto su quanto ha modificato col proprio lavoro, in quanto vi ha messo qualcosa di sé. Secondo Locke l'atto che legittima la proprietà non è quindi la legge o il riconoscimento sociale da parte della comunità in cui un dato individuo vive, ma il lavoro dell'individuo stesso che toglie la cosa dal suo stato naturale. Come conseguenza di ciò, Locke afferma che tale diritto é inalienabile e che non può essere messo in discussione ne dal patto sociale, ne tanto meno dalla legge.
Questa spiegazione viene utilizzata da Locke non soltanto per legittimare la proprietà dei prodotti, ma anche quella della terra: se, infatti, i prodotti vengono consumati da chi se ne appropria, la proprietà della terra risulta essere permanente in quanto si estende anche al futuro a ciò che non viene direttamente e personalmente utilizzato dal proprietario. Tuttavia il criterio del lavoro che legittima la proprietà é applicabile anche in questo caso per Locke. Secondo Locke, infatti, il diritto di proprietà presuppone l'abbondanza delle risorse, ma in modo tale da non tradursi in privazione per gli altri, e permette l'utilizzo delle risorse da parte del proprietario per soddisfare i propri bisogni, giustificata esclusivamente sulla base del lavoro. Pur non considerando legittima soltanto questo tipo di proprietà, che Locke considera un diritto naturale, e quindi inalienabile, egli riconosce l'esistenza di altre forme di proprietà che fondano la propria legittimità proprio sul patto sociale: in quest'ultimo caso, però, lo Stato può intervenire stabilendo delle regolamentazioni e dei limiti che vengono stabiliti per legge. Il criterio, quindi, che per Locke stabilisce i limiti dell'appropriazione individuale é soltanto quello del lavoro. Da ciò ne deriva che la terra posseduta e non coltivata, o quella di cui non si utilizzano i frutti, non rappresenta per Locke una proprietà inalienabile.
La proprietà privata, intesa in tal modo, deve tradursi in un vantaggio pubblico, in quanto la terra coltivata non garantisce soltanto il benessere del proprietario, ma aumenta anche la ricchezza della comunità in cui egli risiede. Poiché il lavoro é per Locke la fonte della ricchezza sociale e del benessere collettivo, Locke fa coincidere l'interesse individuale con quello collettivo. Locke, quindi, critica aspramente il fenomeno, molto diffuso all'epoca, degli enclosures, cioè delle recinzioni abusive di terreni adibiti a pascolo da parte dei signorotti locali, che finivano così per sottrarre terre che altrimenti sarebbero state coltivate dai contadini, producendo ricchezza comune: sarà proprio anche a causa del latifondo che molti contadini, privi di terre da coltivare, si riverseranno nelle grandi città sovrappopolate, aumentando in modo ingente i livelli di povertà, di delinquenza e di disoccupazione.
Il lavoro, per Locke, crea ricchezza in quanto produce il valore della cosa, fondando il diritto alla proprietà privata, e facendo aumentare il benessere sociale: in tal modo egli riunisce liberalismo politico ed economico, fornendo una chiave di lettura unitaria della società dell'epoca.
La società civile e lo Stato.
Secondo Locke il fondamento del diritto é costituito dalla ragione dell'uomo e non dal patto che istituisce lo Stato. Sviluppando questa tesi, Locke si differenzia dal filosofo Hobbes, che aveva sostenuto che l'organizzazione sociale fosse il fondamento dello Stato, sostenendo invece come la società civile risulti essere preminente rispetto allo Stato stesso. Secondo Hobbes, infatti, la condizione di guerra generale, di tutti contro tutti, poteva essere risolta soltanto mediante la rinuncia totale di tutti gli individui a ogni diritto e con la costituzione del potere politico, cioè dello Stato; é appunto dallo Stato che deriverebbero gli eventuali diritti che vengono concessi ad ogni singolo individuo: la società civile risulta, per Hobbes, quindi subordinata allo Stato e ad esso successiva. In Locke, invece, tale prospettiva risulta essere rovesciata: gli individui, infatti, forniti di diritti, fondati sulla ragione, quindi indipendenti dalla legittimazione politica, si associano liberamente, stabilendo un insieme di relazioni sociali ed economiche che costituiscono la società civile. Locke sostiene, infatti, che l'uomo é spinto ad associarsi dalla sua stessa natura: prima nella famiglia, poi nella società civile e, infine, in quella politica. La famiglia costituisce per Locke il nucleo più semplice della società ed é basata sull'aiuto reciproco, sulla comunione di interessi e sull'allevamento dei figli.
Locke sottolinea che i rapporti che compongono la società civile sono dei contratti volontari tra individui, che non coinvolgono quindi la comunità nel suo insieme e che possono sussistere anzi prima di qualsiasi organizzazione complessiva di una comunità e in modo indipendente da essa.
L'organizzazione statale giunge quindi per ultima, allo scopo di garantire il pacifico svolgimento della dinamica sociale già esistente: nel matrimonio, ad esempio, Locke vede un contratto volontario tra due contraenti, in cui lo Stato può intervenire soltanto per dirimere eventuali controversie, così come avviene nei contratti di compravendita, nei rapporti di lavoro, nelle associazioni libere tra i cittadini, et.
Compito dello Stato é quindi quello di garantire la conservazione dei rapporti che già esistono nella società civile, come patto tra individui che sono, e che continueranno ad essere, portatori di diritti, delegando al potere politico soltanto alcuni poteri, quale ad esempio il potere di punire con sanzioni coloro che infrangono i diritti naturali. Per Locke, quindi, lo Stato non modifica la condizione naturale degli uomini, ma ha il compito di conservarla e il suo fondamento é proprio la società civile. Locke analizza, a tale scopo, tutte le diverse e possibili forme di organizzazione politica, utilizzando quale criterio la loro maggiore o minore capacità di conservare i diritti e di assicurare la pace tra gli uomini: la conclusione a cui giunge é la necessità di separare i tre poteri legislativo, esecutivo e federativo. Con il termine di potere federativo egli intende il rapporto che uno Stato intrattiene con gli altri Stati, cioè quelli che noi comunemente chiamiamo rapporti con l'estero: stipula di trattati di pace o di alleanza, dichiarazioni di guerra, decisioni di politica estera in generale. Secondo Locke, fra i tre poteri, il più importante é il potere legislativo, esercitato dal parlamento, che trae la propria autorità dalla comunità che lo ha eletto e deve rispondere soltanto ad esso, garantendone la sicurezza e la conservazione dei diritti naturali. Secondo Locke, quindi, il potere legislativo é quello supremo ed é lo strumento per realizzare il godimento pacifico della proprietà, termine con cui egli designa anche, oltre ai beni, la libertà e la conservazione di sé.
Tuttavia il filosofo sottolinea come il potere legislativo deve però sottostare ad una serie di vincoli che impediscano il suo uso assolutistico: non possono essere emanate leggi arbitrarie, né leggi che possano minacciare la sicurezza dei cittadini ma, sopratutto, non può essere emanata alcuna legge che metta in pericolo il diritto di proprietà. Se lo Stato é tenuto alla salvaguardia dei diritti naturali dei cittadini, il popolo, che detiene la sovranità, ha il diritto di destituire i propri rappresentanti, liberamente eletti, qualora essi non abbiano svolto il proprio compito in modo adeguato: appartenendo la sovranità al popolo, il parlamento e il governo costituiscono suoi semplici rappresentanti e se questi non agiscono per il bene comune, Locke sostiene che il popolo può affidare il potere ad altri, come era appunto avvenuto durante la gloriosa rivoluzione. Nella parte conclusiva del Trattato, Locke analizza le cause della dissoluzione del governo, considerando la possibilità della ribellione, per quanto possibile pacifica, contro un potere che non garantisca i diritti naturali. Pur valutando i rischi di violenza e di guerra civile che una tale azione può comportare, giudica tuttavia la perdita della libertà o della proprietà, cioè l'arbitrio o la tirannide, dei Mali peggiori che giustificano la ribellione dei cittadini.
Locke e la tolleranza.
Con l'affermazione dell'indipendenza della sfera personale dal potere dello Stato, Locke affronta la tematica centrale del liberalismo che afferma l'esistenza dei diritti naturali che nessuna forma di potere é in grado di violare. Tra questi diritti Locke comprende la libertà di coscienza in materia religiosa e la libertà di culto ad essa collegata. Tali tesi sono da lui esposte nella Lettera sulla tolleranza, scritta nel 1685 e che verrà pubblicata nel 1689, all'indomani della gloriosa rivoluzione che aveva rovesciato il sovrano cattolico Giacomo II.
Nel precedente Saggio sulla tolleranza, del 1667, Locke aveva sostenuto che la fede é un fatto di coscienza, totalmente indipendente dal potere politico. Lo Stato, per Locke, può legiferare in materia religiosa soltanto nel caso che la religione assuma rilievo pubblico, cioè nel caso che la Chiesa pretenda di intervenire in materie civili e politiche che riguardano non soltanto i propri fedeli, ma la società nel suo insieme. La questione del rapporto tra Stato e Chiesa diventa urgente, in Inghilterra, quando, con l'insediamento sul trono di Giacomo II, sovrano cattolico e alleato della Francia e del Papato. La lettera sulla tolleranza viene scritta da Locke, non in modo casuale, nel 1685, lo stesso anno dell'ascesa al trono di Giacomo II.
Le posizioni di Locke in materia si biforcano lungo due direzioni che fonderanno le basi del liberalismo in materia religiosa: da un lato egli sostiene che la libertà di culto e di pensiero sono diritti primari di ogni singolo individuo; dall'altro afferma la distinzione tra le funzioni e l'ambito della Chiesa e, rispettivamente, quelle dello Stato, con una netta separazione di ruoli. Unendo questi due presupposti, Locke affronta il problema della religione come un fatto privato della coscienza di ogni uomo, affermando che la fede e le leggi dello Stato appartengono ad ambiti totalmente distinti, in quanto la fede richiede un'adesione interiore libera, basata sul sentimento, che nessuna legge dello Stato, per quanto giusta, é in grado di pretendere lecitamente. Nella prima Lettera sulla tolleranza, Locke ne scriverà ben quattro, il filosofo propone l'argomento della carità a fondamento della tolleranza e in quanto tratto distintivo della religione cristiana: la fede, per Locke, deve essere frutto di una scelta interiore, affidata alla coscienza del singolo e non é possibile imporla con la forza, in quanto andrebbe in direzione contraria dello stesso cristianesimo, sul piano religioso, e illegittimo su quello civile. Lo Stato, quindi, non può imporre una data fede neppure con il pretesto di salvare l'anima ai propri cittadini, come era avvenuto con i conquistadores spagnoli nei confronti delle popolazioni native americane per legittimare le razzie di materie prime e gli eccidi di massa di Indios, Inca e di molti altri popoli nativi delle Americhe, perché solo se si crede veramente, e non per imposizione, si può meritare la grazia divina.
Per Locke, quindi, la salvezza costituisce una questione personale, che riguarda la coscienza e non lo Stato, e Chiesa e Stato sono istituzioni tra loro nettamente distinte: lo Stato, infatti, é un'associazione obbligatoria che ha il compito di garantire ad ognuno gli stessi diritti; mentre la Chiesa é un'associazione liberamente scelta, che può darsi da sola le proprie leggi, purché non contrastino con quelle dello Stato e non debbano essere imposte con la forza ai propri membri. Solo lo Stato, infatti, può usare un potere coercitivo nei confronti del singolo che violi le leggi; la Chiesa ha soltanto il potere di espellere chi le infrange, perché il credente é, prima di tutto, un cittadino, soggetto soltanto allo Stato, e conserva in ogni caso i propri diritti.
Così come le funzioni dello Stato e della Chiesa sono distinte, lo sono anche i ruoli dell'individuo in quanto cittadino e in quanto fedele, cioè membro di una Chiesa. Locke sostiene che la prima condizione é irrinunciabile, sia nei doveri, sia nei diritti che sono inerenti a tale condizione: nessuna fede, infatti, può implicare il venir meno delle leggi dello Stato o la rinuncia ai propri diritti. In merito all'appartenenza ad una data Chiesa e al comportamento che ne consegue, Locke afferma che debba essere considerato alla stessa stregua di ogni altro aspetto relativo alla vita civile: é lecito fare in nome della religione ciò che la legge consente in ogni altro ambito: quindi per Locke l'appartenere ad una Chiesa non può comportare in alcun modo una qualsiasi restrizione ai diritti del singolo o determinare una qualche condizione di privilegio; se, in quanto cittadino, ognuno possiede diritti e obblighi che nulla hanno a che vedere con le sue convinzioni religiose, in quanto credente, ognuno é padrone di sé e della propria coscienza. Tuttavia per Locke anche la tolleranza presenta dei limiti: il potere politico ha infatti l'obbligo di reprimere quelle religioni che professano dogmi che siano contrari alla società o ai buoni costumi, così come quelle che, anche se in modo non esplicito, riservano ai propri fedeli il diritto di poter violare le leggi civili. Ma, in modo particolare, Locke condanna i cattolici perché costoro si reputano obbligati a prestare obbedienza ad un sovrano straniero, e gli atei, in quanto Locke reputa non credibili i loro patti e giuramenti.
La ragionevolezza del cristianesimo.
L'opera intitolata La ragionevolezza del cristianesimo, pubblicato a Londra nel 1695, in forma anonima, e tradotto nello stesso anno da Coste, segretario di Locke, con una suddivisione in capitoli titolati, che non esiste nel testo di Locke, che amplia e sviluppa la prospettiva tracciata nella Lettera sulla tolleranza.
L'analisi di Locke tende a spogliare il cristianesimo dagli apparati dogmatici che sono stati elaborati nel corso della storia dalle varie confessioni.
Ricondotto al semplice testo evangelico, l'unico articolo di fede, essenziale per la salvezza, secondo Locke, é dato dal credere che Cristo fosse il Messia: tutto il resto dell'apparato di fede é per Locke del tutto ininfluente e può essere affidato alla libera interpretazione. In tal modo verrebbero meno i motivi di contrasto e di lotta religiosa e si avrebbe un vero ecumenismo, cioè il rispetto reciproco fra le diverse confessioni religiose e si aprirebbe la strada verso il sorgere di un'unica Chiesa universale.
Locke giustifica la propria posizione sostenendo che il Vangelo é stato predicato ai poveri e che essi non sarebbero stati in grado di comprendere le singole sottigliezze teologiche: per tale scopo il carattere del Vangelo dovrebbe essere estremamente pratico. Locke sostiene, inoltre, che la predicazione morale di Cristo, su cui deve fondarsi una condotta autenticamente cristiana, costituisce l'aspetto essenziale del Vangelo, e tali precetti coincidono con quanto dettato dalla ragione di ogni uomo. La ragionevolezza del cristianesimo verrà
interpretata dall'Illuminismo settecentesco come un'anticipazione del deismo (la concezione secondo cui é possibile dimostrare l'esistenza di Dio quale creatore dell'universo mediante argomenti esclusivamente razionali, ma non la verità delle diverse religioni, tra le quali quindi deve esistere reciproco rispetto e tolleranza), e come dichiarazione di antidogmatismo, con tutte le implicazioni anticlericali e anti confessionali che, pur non contenute nel testo di Locke, gli illuministi ne trarranno. L'importanza di tale opera, però, é legata sopratutto alla separazione tra fede e morale, grazie alla quale il cristianesimo appariva, principalmente per la morale, conciliabile con la ragione e con una morale basata su di essa.