Classi 4°A/B/C Linguistico
L’esistenza di Dio e l’armonia prestabilita.
Leibniz, sinora, ha delineato le caratteristiche delle varie tipologie di monadi o sostanze individuali, affermando che non esistono due monadi uguali in quanto ciò richiederebbe una ragione sufficiente perché ciò possa avvenire. Egli ha fatto riferimento a due principi fondamentali della logica, quello di ragion sufficiente e quello di non contraddizione, oltre alla distinzione tra verità di ragione e verità di fatto.
Partendo, quindi, dal principio di ragion sufficiente, Leibniz dimostra anche l’esistenza di Dio rifacendosi, anche se solo in parte, alla via ex causa e alla via ex contingentia di Tommaso d’Aquino, riferendosi all’esistenza di un’infinita quantità di cause che concorrono a determinare un singolo fatto. Leibniz aveva già detto in precedenza che ogni verità di fatto è contingente in quanto il suo opposto non implica alcuna contraddizione, ma che deve esserci una ragione sufficiente, cioè una causa, perché tale fatto accada. Per ogni fatto, quindi, devono esserci innumerevoli cause e ognuna di esse, a loro volta, deve avere altre innumerevoli cause, tutte contingenti, perché un certo fatto si realizzi. Ciò rende necessario presupporre un essere necessario che sia l’origine di queste catene di cause, cioè una causa prima che non rimandi ad altre cause: per Leibniz tale causa incausata é appunto Dio che, nella dimostrazione di Leibniz, é causa prima e essere necessario su cui é fondata tutta la realtà contingente e che offre all’uomo la garanzia della razionalità di tutta la realtà. Infatti, l’esistenza di Dio e il suo intervento, permettono a Leibniz di spiegare come le monadi, che non hanno finestre, che non possono cioè comunicare direttamente con l’esterno e tra di loro, possano interagire tra di loro. Pur non potendo interagire direttamente tra loro, tuttavia l’attività di ciascuna monade risulta essere interconnessa e in armonia con quella delle altre: il loro rapporto, secondo Leibniz, é quindi di corrispondenza e non di rapporto causale. Ogni monade percepisce, infatti, in modo consapevole o inconsapevole, tutte le altre, il cui stato e la cui attività contribuisce a determinarle. Tale influenza reciproca tra le monadi non é però diretta, ma risulta essere mediata da Dio che ha regolato dall’inizio ogni monade in modo tale che alla percezione dell’azione di ogni monade sull’altra corrisponda la percezione della passione o azione subita della seconda monade rispetto alla prima. Tale presupposto Leibniz lo chiama armonia prestabilita e la spiega, in una lettera del 1696, con il famoso esempio dei due orologi, con il quale intende chiarire anche il rapporto tra anima e corpo lasciato aperto da Cartesio: se due orologi segnano, in ogni movimento, la stessa ora, si possono fare tre diverse ipotesi: o risultano essere collegati tra di loro, per cui il movimento dell’uno causa quello dell’altro, come avviene nel meccanicismo; o qualcuno interviene continuamente ad accordarli, come nel caso dell’occasionalismo che sostiene il continuo intervento di Dio nel mondo fisico; oppure sono stati costruiti così perfetti che, pur non influendandosi, procedono di pari passo, come avviene nell’armonia prestabilita.
L’armonia prestabilita si inserisce in modo organico nel pensiero di Leibniz in quanto si fonda sulla concezione che la sostanza individuale possiede fin dall’inizio scritto in sé tutto ciò che farà e sarà nel futuro. Tuttavia l’armonia prestabilita solleva due problemi che Leibniz tenta di risolvere nella sua opera intitolata i Saggi della Teodicea, in cui affronta anche il problema del rapporto tra Dio e il mondo: il primo di questi problemi é dato dalla presenza del male nel nostro mondo che dovrebbe essere il migliore tra i mondi possibili: se Dio accorda tutte le monadi tra di loro, garantendo la razionalità e l’ordine di tutto il reale, allora diventa difficile concepire la presenza del male nel nostro mondo. Il secondo problema é dato dalla possibilità della libertà dell’uomo nel nostro mondo, nonostante l’armonia prestabilita: se tutto ciò che l’uomo farà o sarà risulta già essere preordinato da Dio sin dalla creazione, é necessario porsi il problema se l’uomo possa essere effettivamente libero.
Il migliore dei mondi possibili e il problema del male.
Nella sua Teodicea Leibniz affronta il problema dell’esistenza del male nel nostro mondo. Il termine teodicea, coniato per la prima volta dallo stesso Leibniz, deriva dall’unione di due parole greche: théos, che significa Dio, e dike, che significa giustizia, e indica letteralmente la dottrina del diritto e della giustizia di Dio, intesa quale giustificazione dell’opera di Dio di fronte alla presenza del male nel mondo. Strettamente connesso al problema del male, sopratutto riferito al male morale, Leibniz deve affrontare e spiegare il problema della libertà umana, dimostrando appunto che il mondo attuale è il migliore dei mondi possibili in quanto comprende, così affermerà appunto nella Teodicea, la più grande varietà unita al massimo ordine possibile in quanto è “il più semplice quanto a ipotesi e il più ricco di fenomeni”. Nell’Ottocento il termine teodicea diventerà inonimo della teologia razionale.
Leibniz, per affrontare il problema del male, muove dalla riformulazione della prova dell’esistenza di Dio, basata sulla contingenza e sul principio di ragion sufficiente. Leibniz sostiene che il mondo attualmente esistente non è l’unico possibile: ogni mondo immaginabile, purché non contraddittorio, avrebbe potuto essere creato da Dio e, se ha scelto di creare questo, significa che deve esserci una ragione che l’uomo deve ricercare.
Secondo Leibniz, infatti, tutte le monadi create da Dio sono contingenti e quindi ognuna di esse può contenere al suo interno una qualche contraddizione. Inoltre, per il principio dell’armonia prestabilita, tutte le monadi costituiscono un insieme unitari e intercorrelato, in quanto ognuna si rappresenta l’universo in modo peculiare. Egli afferma che, se ci fosse anche una minima variazione nella rappresentazione di una sola monade, ciò provocherebbe, di conseguenza, il cambiamento delle rappresentazioni di tutte le altre, dando origine ad un mondo diverso. Dio che, prima della creazione, ha provveduto ad accordare i contenuti psichici di ciascuna monade l’una con l’altra, permette però che si possano verificare infinite altre combinazioni possibili, a condizione che non venga violata alcuna verità di ragione necessaria. Leibniz sostiene che tutti questi possibili mondi alternativi sono presenti contemporaneamente nella mente di Dio. Leibniz sostiene che se Dio, tra tutti i mondi possibili, ha scelto questo che esiste attualmente, deve esserci una ragione sufficiente che ha motivato la creazione di questo mondo piuttosto che di un altro. Poiché Dio è infinitamente buono, tale scelta non é incondizionata, ma deve essere caduta necessariamente sul migliore tra i mondi possibili, cioè privi di contraddizioni.
La teoria di Leibniz circa il migliore tra i mondi possibili, pur suscitando critiche da varie parti, permette di conciliare, come vedremo, il male, la sofferenza e il dolore, in quanto Leibniz considera tutto l’universo come una totalità, in cui ogni parte risulta determinata dall’insieme e, allo stesso tempo, è in grado di determinarlo. Il filosofo paragona l’intero universo all’oceano dove il minimo flusso di corrente, lo spostamento di un singolo corpo, finiscono per modificarne ogni parte. Singoli cambiamenti possono, quindi, modificare il tutto, quindi Leibniz sostiene che evitare anche un male minimo causerebbe la creazione di un altro universo: in tal modo si ritorna al presupposto iniziale, cioè se quel mondo fosse stato il migliore, allora Dio l’avrebbe scelto.
Il male e la libertà.
Tuttavia, nonostante il nostro sia il migliore tra i mondi possibili, in esso c’è il male. Il problema che Leibniz si pone non è tanto quello di giustificare l’esistenza del male, quanto di dimostrare che tale esistenza si concilia con l’onnipotenza e la bontà di Dio. Non potendo ammettere l’esistenza della materia, infatti, non esiste un principio che possa aver generato il male. da qui la necessità per Leibniz di distinguere le diverse tipologie di male esistenti nel nostro mondo:
il male metafisico che deriva dalla necessaria limitatezza e imperfezione delle creature;
il male fisico, cioè il dolore;
il male morale, cioè il peccato.
Partendo dal presupposto che Dio non può essere causa del male, tuttavia Leibniz sostiene che Dio lo permette perché in ogni altro mondo possibile il male sarebbe stato maggiore rispetto a quello esistente nel mondo attuale. Dio, inoltre, permette il male fisico in quanto può funzionare da ammonimento morale e facilitare la consapevolezza dell’uomo tramite la sofferenza; mentre appare più problematico e complesso per Leibniz spiegare il male morale, cioè il peccato.
Secondo Leibniz se Dio impedisse il peccato, verrebbe di conseguenza annullata anche la libertà dell’uomo, ma sarebbe anche annullato il bene e la stessa responsabilità morale dell’uomo.
Leibniz afferma che il male morale deve essere inserito all’interno del contesto complessivo del bene del mondo: se la colpa di un singolo uomo può essere la ragione che porta a un bene maggiore per l’intera umanità, come nel caso del tradimento di Giuda che ha reso possibile l’azione di redenzione del Cristo. Leibniz sostiene, inoltre, che Giuda non avrebbe potuto non peccare, in quanto il suo tradimento era già contenuto nel suo concetto dal momento in cui Dio lo aveva creato: se in alcuni dei mondi possibili Giuda poteva decidere di non tradire, nel nostro mondo non avrebbe potuto evitarlo in quanto tale azione era già inscritta nella sua individualità.
Nel tentativo di conciliare la libertà individuale con un mondo, pensato da Dio fin dalla sua creazione in tutte le sue connessioni e dove il minimo cambiamento produrrebbe un mondo diverso, Leibniz scrive appunto la Teodicea.
Dovendo affrontare un problema di difficile soluzione Leibniz tenta quindi di conciliare la libertà umana con la concezione della sostanza individuale: se la monade è un concetto completo, in quanto comprende in sé tutti i suoi predicati, come può un individuo scegliere di non compiere una certa azione se questa rappresenta uno dei predicati che lo caratterizzano? Leibniz, per risolvere il problema, distingue tra ciò che è necessario, cioè ciò che non potrebbe esistere diversamente senza cadere nella contraddizione, e ciò che è certo, cioè è così, ma potrebbe essere altrimenti senza che vi sia alcuna contraddizione. In tal modo Leibniz arriva a stabilire che ciò che avviene nella monade è stabilito fin dalla sua creazione, ma non è necessario, salvando la libertà umana, almeno a livello formale. Se è vero che la necessità del comportamento non è assoluta, nel senso che l’azione contraria non è impensabile e potrebbe realizzarsi in uno degli altri mondi possibili, poiché però questo mondo è stato creato in un certo modo e ha delle cause che lo determinano, è certo che il comportamento individuale sarà ciò che deve essere.
Il rapporto tra ciò che Leibniz definisce come necessario, come ad esempio le verità matematiche e geometriche, le cui leggi sono universalmente valide e identiche per tutti gli uomini, e ciò che definisce come certo, come gli eventi o i fatti che possono o meno accadere senza alterare l’ordine razionale dell’universo, come la scelta di un abito o di un certo panino, presentano importanti raffronti sia con la reminiscenza platonica, sia con la potenza e l’atto aristotelici.
Come Platone fonda l’atto del conoscere, non nell’apprendere informazioni nuove, ma nel rievocare ciò che l’anima ha appreso durante la sua permanenza nel mondo Iperuranio delle Idee, così Leibniz distingue tra libertà formale, presente all’interno della monade, ma non ancora resa attiva dalla sua scelta, e libertà fattiva, cioè la possibilità concreta della monade di poter effettivamente scegliere entro un ventaglio di possibilità diverse. In realtà lo stesso Leibniz dice che la monade, possedendo un limitato numero di possibilità quali determinazioni di ciò che sarà e subirà nel futuro, non può effettivamente scegliere al di là delle possibilità di azione che Dio le ha destinato sin dalla sua creazione: se all’interno di una monade sono contemplate due diverse possibilità di scelta quali diventare una famosa rockstar e un assassino, la scelta della monade non potrà ampliare tale ventaglio limitato di possibilità e dovrà scegliere soltanto tra queste due opzioni che ne rispecchiano le peculiari qualità o determinazioni che la caratterizzano come sostanza.
Il riferimento alla potenza e all’atto di Aristotele può aiutare a capire meglio il rapporto tra necessario e certo: se la potenza rappresenta la qualità di un essere già presente al suo interno, ma che ancora non si è concretizzata nella realtà, l’atto è, al contrario, una qualità già realizzata; così il necessario o libertà formale rappresenta una serie di possibilità che caratterizzano la natura della monade creata da Dio, mentre il certo o libertà fattiva rappresenta la scelta concreta che la monade compie all’interno delle possibilità che essa contiene. La monade, così come la sostanza aristotelica, è vincolata a realizzare la propria natura o, come la definiva Aristotele, la propria entelechia, e non può operare delle scelte che contraddicono la sua natura.
La libertà di cui parla Leibniz è quindi solo formale e potenziale, non effettiva, ma legata alla contingenza delle azioni: l’individuo, infatti, è libero nella misura in cui può agire spontaneamente e in modo consapevole, cioè senza alcuna costrizione.
Leibniz dimostra che tali condizioni sono soddisfatte e che quindi si può assumere che l’uomo sia libero, affermando che la predeterminazione divina, che costituisce l’armonia prestabilita, inclina l’uomo senza necessitarlo, e che quindi ogni uomo è responsabile delle proprie scelte. In realtà, come si è visto nel caso di Giuda, se è vero che ogni azione umana è contingente e non necessaria, in quanto si può immaginare, senza alcuna contraddizione, un mondo in cui tale azione non si compie, tuttavia nel mondo attuale, quello scelto da Dio come il migliore tra i mondi possibili, tutto deve accadere come è stato già stabilito a motivo del fatto che Dio lo ha scelto tra gli altri in relazione al complesso di tutti gli accadimenti possibili che lo caratterizzano.
La polemica con l’empirismo e la teoria della conoscenza.
Tra tutte le polemiche con i suoi contemporanei, Leibniz si impegna particolarmente nella polemica con Locke e con i presupposti filosofici dell’Empirismo. Locke aveva pubblicato la sua opera più importante nel 1690, intitolata il Saggio sull’intelletto umano.
Leibniz scrive, polemicamente in risposta a Locke e alle sue critiche sull’innatismo, I Nuovi saggi sull’intelletto umano, dove effettua un’analisi accurata del Saggio di Locke e che, pur essendo conclusa nel 1705, Leibniz deciderà di non pubblicarli in seguito alla morte di Locke che avviene nello stesso periodo. I Nuovi saggi vengono scritti in forma di dialogo e in essi compaiono due personaggi di fantasia: Filarete, che ha il compito di riferire e di sostenere le tesi di Locke, e Teofilo che le critica, sostenendo il punto di vista di Leibniz. Questi due personaggi ripercorrono tutti i passaggi dei Saggi di Locke e ne discutono ogni passaggio.
Il punto più importante della controversia riguarda l’origine delle idee, che Locke riferisce unicamente all’esperienza, utilizzando la famosa teoria secondo la quale la mente umana è paragonabile a un foglio bianco o a una tabula rasa, cioè a una lavagna cancellata.
Secondo Leibniz, molti principi, come quelli della matematica o della logica, sono innati, si tratta cioè di principi universali, validi in ogni tempo e in ogni spazio, mentre dall’esperienza non si possono ricavare che principi limitati.
Locke polemizza non soltanto con l’innatismo di Cartesio, ma anche con i platonici di Cambridge, scuola che si rifà al neoplatonismo platonico, rivisitato però in chiave moderna.
Leibniz, ovviamente, è innatista, visto che sostiene che ogni conoscenza è contenuta all’interno della monade fin dall’inizio, passando da semplici percezioni a appercezioni. Leibniz, convinto com’è che l’esperienza non possa spiegare l’origine delle idee, è però consapevole di non poter partire da tale presupposto nei suoi Saggi in quanto renderebbe impossibile qualsiasi confronto con il pensiero degli empiristi e, in particolare, di Locke. Ponendosi così in una prospettiva tradizionale, Leibniz preferisce distinguere tra esperienza e idee, sviluppando l’argomento con il linguaggio filosofico tradizionale. In questa prospettiva, egli sottolinea fin dalle prime pagine l’obiezione di fondo alla quale l’empirismo è esposto e che verrà poi ripreso anche da Hume e da Kant: il problema dell’induzione: se, infatti, i sensi sono l’unica fonte di conoscenza dell’uomo, Leibniz si chiede come sia possibile ricavare da esperienze particolari, e quindi necessariamente limitate al passato e al presente, leggi universali che consentano le previsioni dei fenomeni nel futuro; (se a qualcuno, per esempio, chiediamo se gli piace la carne di serpente, ciò non significa che tale gusto sia condiviso da tutti: per poter dire che tale opinione può diventare legge universale dovremo dimostrare che tutti gli abitanti del nostro pianeta sono d’accordo con tale opinione, ma ciò è naturalmente un’ipotesi irrealizzabile, in quanto non possiamo intervistare gli uomini del passato o del futuro, né tanto meno tutti gli uomini del presente). Infatti, per quanto possano essere numerose le esperienze, queste risulteranno essere sempre particolari, relative ad alcuni casi, ma non generalizzabili, comunque, a tutti i casi possibili. Leibniz sostiene, infatti, che dedurre da singole osservazioni particolari e individuali delle leggi universali, tali leggi saranno comunque solo probabili e mai necessarie: esse possono infatti essere sempre smentite, basterebbe una sola evidenza contraria, in quanto non costituiscono verità di ragione necessarie, ma soltanto verità di fatto contingenti, accertabili, ma non dimostrabili. Se sono possibili verità universali, come quelle matematiche, esse devono derivare da noi e non dall’esperienza: Leibniz le definisce a priori, cioè completamente staccate da ogni contenuto di esperienza, ma universali e necessarie, le stesse per tutti gli uomini.
Le proposizioni matematiche sono ricavabili per via deduttiva e possono essere dimostrate come necessarie, in quanto negarle implicherebbe delle contraddizioni: devono, quindi, essere vere in qualsiasi tempo e per chiunque. Secondo Leibniz le verità universali sono presenti in noi fin dalla nascita, ma come percezioni, e sono dunque inconsce e diventano appercezioni grazie all’esperienza. Questa è la teoria che Leibniz chiama teoria dell’innatismo virtuale, secondo la quale l’intelletto, alla nascita, non ha conoscenze attuali, ma possiede potenzialità che l’esperienza porterà alla luce, come un blocco di marmo che contiene potenzialmente al suo interno ogni possibile creazione e che lo scultore fa emergere in atto con il suo intervento sul marmo.
Il riferimento alla potenza e all'atto aristotelici é qui evidente: come il blocco di marmo contiene in sé, in potenza qualsiasi scultura lo scultore vorrà realizzare, trasformando quel blocco di marmo in una scultura completa con la sua ispirazione e il suo lavoro, cioè in una realtà in atto, così Leibniz sostiene che le idee, già presenti nell'individuo in modo innato sotto forma di idee inconsce, diventano poi attive mediante l'interazione con l'ambiente, o meglio, con l'esperienza, diventando, da semplici percezioni, delle appercezioni.
Come già detto in precedenza in merito al problema della libertà, il riferimento alla reminiscenza platonica qui è d’obbligo: se per Platone conoscere é ricordare quanto l'anima ha già appreso durante la contemplazione delle Idee nel mondo iperuranio, cioè le idee delle cose sono presenti nella mente umana prima che l'uomo ne abbia esperienza con gli oggetti concreti, anche per Leibniz le idee innate sono presenti nella monade in modo inconscio, cioè senza che essa ne sia consapevole, e soltanto l'esperienza può attivare tali conoscenze, rendendole via via più consapevoli. Leibniz propone, di conseguenza, di correggere la famosa frase di Aristotele, presa a simbolo dell'empirismo, "nihil est in intellectu quod non fuerit in sensu" cioè nulla giunge all'intelletto se prima non passa attraverso i sensi, con la frase: " Nulla giunge all'intelletto se prima non passa attraverso i sensi, ad eccezione dello stesso intelletto", in quanto l'intelletto non può essere derivato dai sensi, ma deve esistere prima dei sensi stessi, altrimenti i dati sensoriali rimarrebbero senza alcun significato per il soggetto che conosce: ad esempio, se noi ci pungiamo con una rosa, i sensi trasmetteranno tutte le informazioni in merito al cervello che, dopo averle elaborate, le immagazzinerà nella memoria, per recuperarle al momento del bisogno; ma, se ciò non succedesse, noi saremo costretti a ripetere la stessa esperienza, in questo caso la puntura della rosa, in quanto il cervello, non associando alcun significato ai dati sensoriali, questi non verrebbero ricordati, ne tanto meno li potremo usare per conferire un significato univoco alla realtà in cui viviamo. La teoria dell'innatismo potenziale permette a Leibniz di superare l'obiezione più importante che Locke aveva rivolto all'innatismo cartesiano: l'impossibilità di poter ammettere che vi siano nell'uomo delle idee di cui egli non é consapevole; visto che era possibile dimostrare che alcuni uomini, come i bambini e i pazzi, non possiedono idee logiche o matematiche, allora tali idee non potevano essere innate. A tale obiezione Leibniz risponde che le idee, innate o meno, non devono essere identificate con il pensiero cosciente e, a tale proposito, propone la teoria delle "piccole percezioni"che anticipa la nozione di inconscio. Nei Nuovi saggi, grazie al dialogo tra Filarete e Teofilo, la teoria delle piccole percezione viene chiarita e maggiormente articolata: all'interno di ogni uomo esisterebbero tante piccole infinite percezioni di cui noi non siamo consapevoli, o perché diventano consuetudini, cioè abitudini e non attirano quindi più la nostra attenzione (come nel caso di un rumore di sottofondo che siamo abituati a sentire in casa), o perché sono di piccola intensità, per cui le cogliamo nel loro insieme e non singolarmente (come avviene nel rumore del mare, dove noi non cogliamo il rumore di ogni singola onda, ma il rumore complessivo). La teoria delle piccole percezioni non é soltanto da Leibniz riferita alla conoscenza, ma la estende anche alle emozioni, al comportamento e ai principi morali di un individuo. Tale teoria, strettamente correlata con il principio di ragion sufficiente, afferma che ogni piccolo gesto deve avere una ragione sufficiente per accadere in un dato modo e non in un altro. Spesso, dice Leibniz, tale ragione non la conosciamo, ma la volontà sarebbe il risultato finale di una serie di piccole percezioni in grado di modificare l'animo umano sino a provocare il gesto o il comportamento prodotto. Leibniz, quindi, ipotizza che esista una dinamica interna delle piccole percezioni, completamente inconsapevole, che si manifesta con il comportamento. Tale ipotesi del filosofo viene estesa anche alle scelte morali: egli sostiene che l'uomo opera delle scelte morali sulla base di principi di cui non é chiaramente consapevole, in quanto agirebbero in modo inconscio. Se dei principi morali la ragione può dimostrare la fondatezza, tuttavia tali scelte non derivano da un ragionamento cosciente.
Leibniz, inoltre, sottolinea come razionalismo ed empirismo siano due diverse modalità di conoscenza che possono essere entrambe usate dall'uomo. La loro differenza é paragonabile a quella esistente tra la conoscenza intuitiva e la conoscenza scientifica: nella vita quotidiana l'uomo ragiona spesso per induzione, ma di tale capacità sono dotati anche gli animali, mentre la scienza procede, invece, in modo deduttivo, dimostrando le ragioni necessarie degli eventi come avviene nella matematica e nelle leggi di natura.
Se l'induzione era stato definito da Aristotele la tipologia di conoscenza che, dall'esperienza particolare, giunge alla formulazione di leggi generali, aveva tuttavia messo chiaramente in evidenza la sua problematicità nel ragionamento scientifico e l'utilità, invece, in altri ambiti d'indagine come, ad esempio, nella comprensione dei principi primi delle diverse discipline.