venerdì 24 novembre 2023

Locke 2 - Il nominalismo e la conoscenza.

Classi 4°A/B/C Linguistico

Locke: i problemi dell'empirismo e l'analisi del linguaggio.

Le idee, sia semplici che complesse, secondo Locke non possono essere comunicate direttamente, essendo dei contenuti mentali; tali idee devono quindi essere riferite a qualcosa di sensibile che abbia, però, la funzione simbolica di rappresentarle: il linguaggio.
La posizione assunta in merito da Locke viene definita nominalismo in quanto il filosofo analizza proprio il ruolo dei nomi che l'uomo utilizza nella realtà per indicare le cose tramite il linguaggio.
Locke sostiene, infatti, che le parole siano soltanto dei segni che simboleggiano le idee delle cose: poiché le cose sono sempre particolari, egli sostiene che non dovrebbero esistere termini generali che costituiscono, invece, la maggior parte del lessico all'interno di ogni lingua. L'utilizzo dell'uomo di tali termini generali rappresenterebbe la sua esigenza fisiologica di risparmiare lo spazio all'interno della propria mente, in quanto l'uomo non é in grado di ricordare singolarmente tutti i singoli individui di cui ha fatto esperienza, di attribuire cioè un nome specifico ad ogni animale, pianta o singola foglia che ha esperimentato con i sensi.
Locke afferma, tuttavia, che tale processo di attribuzione di singoli nomi specifici risulterebbe la procedura più corretta da utilizzare, visto che l'uomo conosce sempre singoli oggetti individuali.
In riferimento alla genericità dei nomi comuni, Locke é in grado di spiegare come gli uomini siano in grado di capirsi tra loro. Secondo Locke il problema della conoscenza risulta così strettamente legato al linguaggio: poiché le sensazioni sono strettamente individuali, così come le idee semplici che ne derivano, la comunicazione avviene mediante il linguaggio che utilizza segni simbolici, i nomi, per riferirsi alle cose concrete. Le parole, quindi, rendono generiche e comunicabili le nostre esperienze soggettive. Un esempio di ciò é l'utilizzo del termine cavallo: ognuno di noi forma la nozione di cavallo basandosi su di una serie di esperienze soggettive (i cavalli che ha visto, toccato, sentito in concreto), e poi le trasferisce nel nome generico di cavallo per poterle comunicare ad altre persone; in questo modo l'utilizzo di un nome comune permette di risvegliare negli altri ricordi ed esperienze su quell'oggetto che, per quanto le loro esperienze risultino essere altrettanto soggettive e pertanto diverse dalle nostre, il linguaggio e, in particolare, l'utilizzo di un unico nome permette la comprensione tra due interlocutori, proprio per il fatto che le parole si riferiscono ad una molteplicità di esperienze soggettive che diventano equivalenti tramite l'uso del nome.
Il vantaggio dell'uso di nomi generici é quello di trattare le esperienze in modo più efficace perché riferendo le stesse caratteristiche ad una grande quantità di individui uniti da un nome identico possiamo isolare quegli aspetti che riteniamo più importanti da conoscere e da comunicare agli altri. Il vantaggio di tale meccanismo é di facilitare gli scambi linguistici, anche di esperienze diverse, dal punto di vista pratico.
Locke, tuttavia, sostiene che il problema da chiarire sia l'origine dei nomi generali che derivano, a loro volta, da idee generali. Tali idee, secondo Locke, sono il risultato di un particolare tipo di astrazione: non si tratta di astrarre, infatti, una qualità comune a più individui, ma di eliminare dall'esperienza tutte le determinazioni sia spaziali, che temporali, che differenziano i singoli individui e le loro esperienze soggettive.
Le idee generali rappresentano, quindi, insiemi di idee che sono state ripulite della loro componente specifica di spazio e tempo determinati e che si rifanno soltanto a quelle idee che permettono di classificare gli individui, aventi quelle qualità, come appartenenti alla medesima specie. Le idee, che vengono così conservate, rappresentano una realtà unitaria totalmente inesistente però dal punto di vista oggettivo.
Locke chiama tali idee generali essenze nominali, distinguendole da quelle reali, ritenute immanenti alle cose, ma totalmente inconoscibili all'uomo. Noi, infatti, non siamo in grado di sapere cos'é l'oro di per sé, ma soltanto l'insieme delle qualità che percepiamo: l'idea di oro, e quindi il nome che lo designa, costituisce l'essere unitario di quelle qualità come viene ricostruito da noi: ne rappresenta l'essenza, anche se solo nominale, mentre l'essenza reale rimane aldilà della nostra capacità conoscitiva.
Le essenze sono dunque per Locke degli aggregati di idee ai quali siamo noi a dare un nome unitario. In tal modo noi conferiamo alle essenze anche una realtà unitaria e le utilizziamo per dare un significato alla realtà.
Se le essenze reali, ammettendo che siano qualcosa, rimangono inconoscibili per l'uomo, le essenze nominali invece sono costruzioni mentali dell'uomo prive di ogni rapporto con la realtà stessa.
Locke tenta così di tracciare dei confini netti circa ciò che all'uomo risulta conoscibile e ciò che invece non lo é, le essenze appunto, che sono comunque necessarie da presupporre affinché il nostro intelletto possa ricostruire e conoscere il mondo in modo unitario.
Locke sostiene che, nonostante le essenze nominali non abbiano alcuna corrispondenza con le cose, costituiscono lo strumento fondamentale che ci permette di dare un'organizzazione unitaria alle idee semplici allo scopo di permettere all'uomo di poter costruire un mondo fenomenico che sia stabile e comunicabile che gli consente sia di poterne parlare, sia di poter agire in esso. Le idee complesse, invece, pur essendo convenzionali, non sono però arbitrarie: in ogni società vengono unificate con un unico nome le idee importanti per l'esperienza e, per Locke, é per questo motivo che ogni popolo ha dei nomi generali specifici che spesso risultano essere intraducibili al di fuori di una certa cultura e della lingua di un certo popolo.
Locke afferma che, una volta che tali nomi si siano consolidati storicamente mediante l'uso, i nomi generali vengono appresi dai bambini prima ancora che essi abbiano avuto delle esperienze corrispondenti, funzionando anzi come delle linee guida e degli schemi generali in grado di organizzare le idee semplici che via via vengono costruite tramite l'esperienza secondo le associazioni presenti nelle parole.
Secondo Locke, quindi, il linguaggio esprime non solo una visione del mondo e una modalità peculiare di ordinare le esperienze, ma riveste anche un ruolo formativo in quanto, attraverso la trasmissione del linguaggio, vengono anche trasmesse non soltanto idee e parole, ma una modalità peculiare di strutturare la proprie esperienze personali secondo uno stile che, consolidato, viene appreso e fatto proprio dai nuovi membri. Tutto ciò, però, non impedisce che le parole possano essere, a volte, fonte di errore. Locke, infatti, nell'ultima parte del terzo libro, analizza le possibili cause d'imperfezione o di abuso dovute all'uso del linguaggio: tali errori sarebbero la causa della creazione di falsi problemi filosofici e di false credenze in enti fittizi,  come aveva già in precedenza dimostrato nella critica alla sostanza, intesa sia in senso spirituale, che in senso materiale. Locke sottolinea come, spesso, le parole possano essere utilizzate allo scopo di mascherare la totale o parziale assenza di idee chiare e ben argomentate, quando non, addirittura, utilizzate in modo volutamente equivoco. Inoltre, Locke, sottolinea come i nomi attribuiti ad alcuni aspetti delle cose spesso possano essere utilizzati per indicare le cose stesse, producendo così delle entità totalmente fittizie, come le sostanze.
Nel Saggio sull'intelletto umano, Locke dedica due interi capitoli all'analisi del problema del linguaggio: un capitolo dedicato all'analisi degli equivoci che derivano dalle imprecisioni che sono dovute all'uso improprio del linguaggio; l'altro capitolo é invece dedicato agli abusi e alle manipolazioni intenzionali, cioè agli usi volontariamente scorretti, del linguaggio. Allo scopo di ovviare a tali problemi, Locke propone che le idee complesse vengano ricondotte ad idee semplici e queste ultime all'esperienza e che ogni termine, anche quelli di uso quotidiano, possa essere definito in modo univoco. L'esperienza viene, in tal modo, assunta da Locke come criterio di significatività del linguaggio, in quanto richiede di eliminare dalla filosofia tutte le proposizioni che non sono riferibili all'esperienza.

Il quarto libro del Saggio: il mondo, l'io e Dio.

Se per Locke, quindi, l'esperienza deve essere il parametro a cui ricondurre la conoscenza affinché questa possa essere significativa, tuttavia lo sviluppo dell'empirismo in modo rigoroso apre una serie di problemi. La critica all'idea di sostanza, sviluppata nel secondo libro, aveva permesso a Locke di negare la possibilità di conoscere il mondo, ma anche l'io, inteso come sostanza delle idee di riflessione, e Dio, considerato come idea complessa ottenuta amplificando le idee semplici ricavate mediante le operazioni della nostra mente.
Lo scetticismo che sembrerebbe seguire da tali premesse non viene percorso fino in fondo da Locke, come farà invece Hume. Nel quarto libro del Saggio, intitolato Della conoscenza e della probabilità, Locke riesamina il problema del mondo esterno, dell'io e di Dio, nel tentativo di fondare i presupposti della loro conoscenza.

La conoscenza: modalità e metodi.

L'obiettivo del quarto libro del Saggio é quello di tentare di dare una risposta al problema centrale da cui Locke era partito all'inizio della sua indagine: indagare i limiti e le possibilità della conoscenza umana.
Se nei tre libri precedenti del Saggio Locke aveva chiarito il problema dell'origine delle idee, ora egli prende in esame i meccanismi grazie ai quali questi contenuti vengono organizzati e diventano conoscenza propriamente detta. Locke definisce la conoscenza come la percezione della concordanza o della discordanza tra le idee, riconducendola ad alcune tipologie generali: identità o diversità, relazione, coesistenza o connessione necessaria ed esistenza reale.
La diversità e la relazione vengono chiarite da Locke mediante il concetto di uguaglianza e diversità (ad esempio il blu non é giallo o un cane é diverso da un gatto), in quanto due oggetti o realtà vengono confrontate tra di loro, ma mantengono inalterate le loro caratteristiche, risultando dal confronto uguali o diverse, comunque tra loro in relazione. Secondo Locke più problematica appare la spiegazione della coesistenza o connessione necessaria, che equivale al principio di causalità (come nel caso del ferro che, essendo suscettibile al magnetismo, ogni qual volta entra in contatto con un magnete, il ferro ne viene necessariamente attratto). Per Locke il principio della causalità é il fondamento della scienza sperimentale e rende possibile lo sviluppo della conoscenza. Se Newton aveva affermato, nella sua opera Principi matematici, l'universalità del nesso causale, cioè la possibilità di riferire al futuro le relazioni di causa ed effetto sperimentate nei fenomeni in passato. Allo scopo di poter giustificare la verosimiglianza dell'utilizzo del principio di causalità, Newton aveva introdotto l'uniformità della natura, sostenendo che la natura funziona secondo leggi e meccanismi regolari e costanti, quindi prevedibili dall'uomo, che gli rendono possibile, sulla base delle esperienze pregresse, attendersi che le relazioni di cause ed effetto già verificatesi in precedenza, si ripropongano in modo costante e prevedibile anche nel futuro: pur non potendo l'uomo dimostrare razionalmente il principio di causalità, tuttavia tale principio si fonda sull'esperienza e l'abitudine in quanto, senza la causalità, ogni ulteriore progresso scientifico nella conoscenza sarebbe impossibile.
Locke, su questo aspetto, é dello stesso avviso e afferma che la causalità rende all'uomo possibile la conoscenza scientifica del mondo tramite l'esperienza. Hume, invece, porterà alle estreme conseguenze l'Empirismo di Locke e affermerà che, proprio per l'impossibilità di giustificarlo in termini razionali, la causalità non esiste.
In relazione alla quarta specie di conoscenza, cioè l'esistenza reale, Locke propone un esempio molto impegnativo, cioè l'esistenza di Dio, di cui lo stesso Locke aveva dimostrato essere soltanto idea complessa, quindi priva di qualsiasi corrispondenza reale poiché non suffragata da alcuna esperienza.
Questo tipo di conoscenza, l'esistenza reale, risulta essere in aperta contraddizione con la definizione stessa di conoscenza fornita da Locke, cioè come concordanza di idee, in quanto rimanda a qualcosa di eterogeneo rispetto all'idea, cioè l'esistenza.
La percezione della concordanza o meno tra le idee risulta quindi non sempre avere la stessa evidenza: in alcuni casi può essere colta nella sua immediatezza, in altri richiede la mediazione di idee intermedie e l'utilizzo della deduzione. Locke distingue così tre diverse tipologie di conoscenza: la conoscenza intuitiva, quella deduttiva e quella sensoriale.
Secondo Locke l'intuizione e la deduzione riguardano il rapporto tra le idee e rappresentano le forme di conoscenza più certe in quanto é l'intelletto stesso ad elaborare i propri contenuti mentali, mentre la conoscenza sensoriale rappresenta la conoscenza meno certa, in quanto relativa e troppo influenzata dalle esperienze soggettive: Locke, infatti, non assegna a quest'ultima conoscenza lo stesso grado di certezza riconosciuto alle altre due, non tanto per le idee che derivano dalla sensazione, che sono conoscibili immediatamente tramite l'intuizione, quanto per il problema della corrispondenza della sensazione con la realtà, visto che l'uomo non é in grado di conoscere le qualità primarie della realtà esterna, ma soltanto quelle che egli le attribuisce con i propri sensi.
Queste affermazioni sulla conoscenza sensoriale rendono il quarto libro del Saggio molto diverso dai primi tre, in quanto in essi Locke aveva concluso che l'unica conoscenza possibile era data dalle idee, mentre nel quarto libro Locke afferma l'esistenza di una realtà distinta dalle idee che costituirà il problema centrale dell'empirismo che porterà il filosofo empirista Berkeley fino ad affermare l'immaterialismo onde risolvere il problema. Locke é consapevole del problema, prevedendo i potenziali sviluppi dovuti alla riduzione della conoscenza alle idee, e tenta quindi di confutare tutte le possibili critiche agli ultimi sviluppi del suo pensiero rifacendosi al senso comune e affermando che é proprio il senso comune a farci distinguere tra idee percepite, cioè le idee che noi formiamo in presenza di un oggetto concreto, e idee ricordate, cioè le idee che noi formiamo in assenza dell'oggetto concreto, concludendo che questa differenza é sufficiente a provare l'esistenza di oggetti esterni quale causa delle sensazioni, in quanto noi siamo in grado di rievocare, con il nostro intelletto, gli oggetti che abbiamo percepito anche in un momento successivo: ciò permette a Locke di affermare che, quindi, gli oggetti reali devono esistere anche quando i nostri sensi non li stanno percependo.
Secondo Locke, quindi, la conoscenza intuitiva, deduttiva e sensoriale definiscono le possibilità e i limiti della conoscenza umana: tutto ciò che risulta essere non conoscibile con questi tre strumenti costituisce una fede o una semplice opinione, ma non é definibile come conoscenza.
Tuttavia Locke non vuole rinunciare a definire delle conoscenze certe, all'interno di questi limiti, cioè vuole dimostrare l'esistenza del mondo esterno, del nostro io, cioè della nostra esistenza come identità, e di Dio.
La certezza di queste realtà viene da Locke ricondotta ai tre diversi gradi di conoscenza che l'uomo é in grado di utilizzare:

La conoscenza della nostra esistenza, cioè dell'io, viene spiegata grazie all'intuizione, con argomentazioni molto simili a quelle già utilizzate in precedenza da Cartesio: se noi siamo consapevoli di pensare, ragionare, di sentire piacere o dolore, possiamo allora essere intuitivamente certi della nostra esistenza in quanto soggetti di queste attività, senza alcun bisogno di dimostrazione (come ad esempio avviene per la nostra respirazione o circolazione sanguigna che sentiamo mediante intuizione senza doverla dimostrare);

La conoscenza di Dio avviene, invece, per deduzione o dimostrazione: Locke, rifacendosi alla via ex causa di Cartesio, afferma che noi abbiamo la certezza del nostro essere e che, non essendoci creati da soli, deve esistere un essere precedente che ci abbia fatto esistere e a cui possiamo risalire di causa in causa, sino ad individuare una prima causa incausata, cioè non causata da altro;

L'esistenza di una realtà esterna é, invece, attestata dalla sensazione, anche se tutto ciò che possiamo dire é che le nostre idee semplici derivano da qualcosa di distinto da noi, perché noi non possiamo crearle secondo il nostro capriccio, né tanto meno possiamo dire che cosa é in noi a produrre le sensazioni: le nostre sensazioni, dice Locke, sono vere, ma ci possono garantire l'esistenza della realtà esterna soltanto nel momento in cui sto percependo qualcosa.
Locke introduce, accanto alla conoscenza certa, la conoscenza probabile che non é dimostrabile a livello teoretico, ma che é di fondamentale importanza dal punto di vista pratico, in quanto l'uomo su tale conoscenza probabile si basa abitualmente per scegliere come comportarsi.
Secondo il filosofo é proprio la probabilità a sostituire il criterio della verità nell'ambito dell'esistenza, anche se é una conoscenza completamente diversa da quella scientifica.
Locke, quindi, nonostante abbia affermato che l'uomo non può conoscere le sostanze, e quindi la verità oggettiva, non arriva a posizioni scettiche: ciò che l'uomo é in grado di conoscere della realtà non é la verità ultima, ma é quanto gli serve conoscere nella vita quotidiana.
Locke afferma che, pur non potendo conoscere l'intima natura delle cose o essenze, l'uomo ne conosce le qualità e può utilizzare tale conoscenza per migliorare la propria vita. In questo modo se é vero che la ragione non può adeguatamente conoscere la metafisica, né la vera natura della realtà, può comunque risolvere i suoi problemi pratici: l'obiettivo della conoscenza per Locke non é il raggiungimento della conoscenza oggettiva, quanto il miglioramento delle proprie condizioni di vita e il raggiungimento della propria felicità. Lo scopo del conoscere é quindi essenzialmente pratico e concreto, e non astratto, e si colloca sulla stessa scia di Cartesio e di Leibniz per questo aspetto della sua filosofia.