venerdì 22 dicembre 2023

Lezione 30 - Heidegger 2: La critica alla Metafisica tradizionale e l’analitica esistenziale.

Classi 5° A/B/C Linguistico - Lez. 30

Heidegger 2  - La critica alla metafisica occidentale e la via dell'analitica esistenziale.


La critica dei pregiudizi che hanno fatto ritenere inopportuna la domanda sul senso dell'essere viene condotta da Heidegger a partire da un'obiezione di fondo che egli muove alla tradizione della metafisica occidentale. Per questo motivo Heidegger, per sgomberare il campo e prepararlo alla propria impostazione, ritiene opportuna una pars destruens (una demolizione di quanto filosoficamente è già esistente sull'argomento), che consiste in quella che egli definisce una distruzione della storia dell'ontologia. Il suo intento non è quello di "seppellire il passato nel nulla" come egli stesso precisa, ma quello di liberare l'ontologia, in quanto scienza dell'essere, dagli schemi consolidati dalla tradizione, allo scopo di edificare una pars costruens, cioè una nuova impostazione del problema. La critica che Heidegger muove alla metafisica occidentale sostiene che essa ha ridotto l'essere all'ente. La domanda sull'essere, afferma Heidegger, non va ridotta alla ricerca del carattere comune di tutti gli enti. L'essere non è riducibile ai singoli enti, non è riducibile alla semplice presenza. Con l'espressione "semplice presenza" Heidegger designa il modo di essere di quegli enti che l'uomo, o meglio l'Esserci, incontra nel mondo.

Il termine Esserci o Dasein (che in tedesco significa esistenza), viene usato da Heidegger per designare l'uomo, o meglio il modo di essere dell'uomo. Nell'espressione "Da - sein" il ci (Da) indica la condizione di gettatezza propria dell'uomo, cioè il suo essere (Sein) nel mondo, il suo essere presso le cose. L'Esserci é essenzialmente un essere nel mondo. L'Esserci e-siste, etimologicamente sta fuori, si proietta oltre la realtà data. L'utilizzo  del termine Esserci al posto di uomo vuole marcare una presa di distanza dal linguaggio oggettivistico, non adatto al metodo d'indagine dell'analitica esistenziale di Essere e tempo. La critica della riduzione, operata dalla metafisica, dell'essere all'ente e la novità dell'impostazione di Heidegger comportano l'utilizzo di questo termine. Mentre, infatti, col termine uomo si può pensare a un ente del mondo tra altri, con l'espressione Esserci si esprime l'esperienza esistenziale dell'avvertirsi gettato tra le cose, dell'essere nel mondo. I singoli enti quindi, secondo Heidegger, non esauriscono l'essere, per cui quando l'ontologia studia gli enti per rispondere al quesito sul senso dell'essere, affronta il problema in modo riduttivo. Insomma, afferma Heidegger, l'impostazione dell'ontologia greca ha finito con il portare all'oblio dell'essere perché ha spinto a cercare il senso dell'essere tra gli enti, cioè là dove esso non può essere trovato. Se la via dell'ente non porta ad una comprensione adeguata del problema, bisogna cercare un'altra via: qui comincia la pars costruens o costruttiva di Essere e tempo. Secondo Heidegger si tratta di interrogare non un qualsiasi ente semplicemente presente, ma lo stesso ente che pone la domanda, l'uomo, o meglio l'Esserci, cioè l'essere nel mondo. Interrogando l'Esserci sul senso dell'essere, Heidegger analizza le strutture fondamentali dell'esistenza dell'Esserci. In questo senso Heidegger parla di analitica esistenziale per qualificare il metodo della ricerca svolta in Essere e tempo. Questo esame, afferma Heidegger, mostra che l'essenza dell'Esserci consiste nell'aver-da-essere, ossia nella possibilità di essere se stesso. Si apre per lui la possibilità dell'appropriarsi di sé, dell'autenticità, oppure quella dell'espropriazione, dell'inautenticità. L'Esserci viene dunque interrogato rispetto al suo aver-da-essere, rispetto a quello che egli è più propriamente, perciò sul piano esistenziale, e non su quello della semplice presenza. In questo l'analitica esistenziale si distingue dalle scienze umane, che assumono l'essere dell'uomo come qualcosa di già dato e non come possibilità.


Heidegger e l'essere-nel-mondo.


La ricerca sul senso dell'essere ha portato Heidegger all'Esserci, che è un essere-nel-mondo: si tratta di qualcosa di unitario, che pure è possibile studiare secondo tre direttrici. La prima si occupa della struttura ontologica del mondo rispetto all'Esserci. L'Esserci, afferma Heidegger, è un in-essere nel mondo. L'in-essere è un "esistenziale" cioè è una caratteristica propria dell'Esserci. Heidegger distingue tra i due termini di esistenziale ed esistentivo, intendendo con il termine esistenziale l'esistenza in quanto modo di essere dell'Esserci, mentre con il termine esistentivo indica l'esistenza considerata nella sua immediatezza e gettatezza. Heidegger utilizza quindi il termine di esistentivo per qualificare l'Esserci sul piano della semplice presenza, del darsi quotidiano. Usa invece il termine esistenziale per esprimere l'essere dell'Esserci. Gli esistenziali invece sono i caratteri originari dell'Esserci. Essi si raccolgono nella Cura, che è la determinazione ontologica unitaria dell'essere dell'Esserci. Sono contrapposti alle categorie, elaborate dal linguaggio della metafisica, che invece si predicano dell'ente. Spesso Heidegger utilizza anche il neologismo ontico per designare l'ente nella sua immediatezza, l'ente dato sul piano esistentivo, mentre usa il termine ontologico per ciò che riguarda invece l'essere: le due coppie di termini sono simmetriche rispetto ai termini esistenziale (ontologico) ed esistentivo (ontico).

L'Esserci non è dunque una semplice presenza spaziale all'interno del mondo, una cosa dentro le cose. Questo tipo di prospettiva la troviamo invece in Cartesio che parla di res extensa (estensione o materia dei corpi fisici) e finisce con il ridurre l'Esserci all'ente, a una res tra altre res (una cosa tra le altre cose). Secondo Heidegger, invece, l'Esserci é piuttosto un abitare, un essere presso, un soggiornare nel mondo, é un avere familiarità col mondo. In questo senso si capisce perchè Heidegger rifiuta che si possa dire qualcosa come: la sedia tocca la parete. Non si tratta banalmente del fatto che un'ispezione accurata chiarirebbe che vi è un interspazio tra sedia e parete, quanto piuttosto del fatto che il toccare è un'esperienza: esso presuppone che la sedia possa essere incontrata dalla parete. L'incontro però è un'esperienza e perciò può capitare solo all'Esserci, non a un ente che sia semplice presenza nel mondo (sedia e parete sono semplici enti e non Esserci come l'uomo che ne fa esperienza). Un elemento che qualifica il modo dell'Esserci di in-essere consisteer Heidegger nel suo essere presso le cose, nel suo prendersi cura di esse. Per comprendere l'essere nel mondo e quindi la cura sono utili le nozioni che qualificano e differenziano la semplice presenza dall'Esserci, cioè quelle di appagatività, significatività e di utilizzabilità. L'essere dell'ente nel mondo è appagatività, cioè capacità di appagare un'azione finalizzata. Heidegger per spiegarlo prende ad esempio il martello, la cui appagatività consiste nel martellare; tale azione è poi appagativa rispetto al costruire che, a propria volta, appaga il bisogno di un riparo contro le intemperie: tale riparo è una possibilità dell'Esserci, che può così utilizzarlo. È proprio dell'ente il fatto di essere utilizzabile dall'Esserci, in quanto è un mezzo per raggiungere uno scopo. Per comprendere le ragioni dell'appagatività di un ente, e quindi della sua utilizzabilità, bisogna analizzare la nozione di significatività, che collega i mezzi agli scopi: la significatività indica infatti il "per" cioè il motivo per cui un dato ente è utilizzabile (ad esempio l'ente sedia ha una significatività data dal sedersi di qualcuno per riposarsi, di cui anche l'utilizzo della sedia e la sua appagatività perché senza una persona che la usi non avrebbe scopo di esistere nel mondo).

La seconda direttrice relativa al senso dell'essere riguarda invece l'Esserci nella quotidianità. Poichè non si ha mai un io isolato, senza gli altri, l'Esserci per Heidegger è anche necessariamente un con-essere. Questo non significa, naturalmente, che l'Esserci sia sempre in compagnia, ma che anche il suo essere solo è una forma di con-essere. Il con-essere è un fatto esistenziale: si può essere fisicamente lontani dai propri amici, eppure sentirsi a loro molto vicini. È esperienza di ognuno di noi che la vicinanza e la distanza non sono questione di centimetri, lo si vede dal fatto che a volte non si è meno soli per la semplice vicinanza con altre persone. Il mondo abitato dall'Esserci è sempre condiviso con gli altri. Anche nel rapporto con gli oggetti questa condizione esistenziale emerge: come dice Heidegger anche il libro che leggo è comprato presso qualcuno o donato da qualcuno. L'Esserci incontra l'altro e ciò lo porta ad aver cura di lui. La modalità dell'aver cura per l'altro non è riducibile al prendersi cura delle cose. Per spiegarlo, Heidegger fa l'esempio di un'organizzazione sociale assistenziale, che è dignitosa solo se gli assistiti non sono trattati come cose di cui prendersi cura, ma come persone di cui aver cura. L'azione concreta del prendersi cura di qualcuno (nutrire o vestire), può essere un aspetto dell'aver cura di quella persona (del suo benessere e della sua salute). Ma secondo Heidegger l'aver cura non si riduce solo a questi aspetti: ad esempio si può essere l'uno per l'altro, ma anche l'uno contro l'altro, o l'uno senza l'altro, il trascurarsi l'un l'altro, il non importare all'uno dell'altro. Secondo Heidegger anche i modi dell'indifferenza, che rientrano nel con-essere quotidiano, sono modi di aver cura. Heidegger, infatti, non idealizza i rapporti umani, e distingue un avere cura autentico da uno non autentico: in questo secondo caso rientrano i casi di indifferenza propri dell'essere quotidiano con gli altri.

Un'altra forma di con-essere, cioè di essere con gli altri, oltre che per l'aver cura, si caratterizza anche per l'impersonale Si, (Man). Heidegger parla del Si impersonale, del "si dice", "si tratta" mostrando, sopratutto nella sua analisi della chiacchera, la forza persuasiva del Si, capace di offrire la tranquillità che l'angoscia vorrebbe negare. Esso è il"tutti e perciò nessuno" mediante cui l'esistenza ricade nell'inautenticità.

Nella vita quotidiana, afferma Heidegger, ognuno ë come l'altro: l'essere assieme per lo più dissolve il singolo Esserci nel modo di essere degli altri e si creano rapporti in cui l'identità di ciascuno è irrilevante, indifferente. Frasi come " ce la passiamo e ci divertiamo come ci si diverte; leggiamo, vediamo e giudichiamo di letteratura e di arte come si vede e si giudica" sono esempi di Si impersonale. Secondo Heidegger la forza del Si consiste nella sua pervasività, perché è dappertutto e in ogni luogo, e nella sua impersonalità è irresponsabile, perché nel Si non c'è nessuno che risponde di ciò che viene detto o fatto. Inoltre, il Si si rende gradito all'Esserci in quanto ne asseconda la tendenza a prendere tutto alla leggera e a rendere le cose facili. 

È la tentazione più facile per l'Esserci quella di non farsi coinvolgere ne dagli altri, ne dalle cose, decidere di non prendere alcuna posizione di cura o di indifferenza, semplicemente scegliere di non scegliere: ne di essere autentico come Esserci, ne di essere inautentico.

La terza direttrice, infine, consiste nell'esame dell'in-essere come tale. Heidegger analizza in primo luogo la costituzione esistenziale dell'Esserci e individua due esistenziali fondamentali: la situazione emotiva e la comprensione. In secondo luogo, si occupa della deiezione, cioè della caduta sul piano delle cose, esaminando l'Esserci inautentico. Secondo Heidegger l'importanza della riflessione filosofica sulle emozioni spiega la situazione emotiva che caratterizza l'essere dell'Esserci. Sono infatti le emozioni che aprono l'Esserci al mondo. Secondo Heidegger l'Esserci è sempre in uno stato emotivo e coglie il mondo e se stesso attraverso il sentimento. In particolare, l'analisi del sentimento della paura mostra che l'Esserci in quanto essere-nel-mondo è spaurito. Il secondo esistenziale invece è la comprensione. Essa è cooriginaria alla situazione emotiva; anzi la comprensione ha sempre una qualche tonalità emotiva. La comprensione è sempre insieme una comprensione del mondo e una comprensione dell'Esserci stesso.


L'Esserci e l'inautenticità.


Heidegger, trattando dell'in-essere, analizza il Ci, l'essere quotidiano dell'uomo in quanto essere gettato e le sue forme di deiezione, cioè di gettatezza, ossia i modi della caduta dell'Esserci sul piano delle cose, sul piano ontico. Heidegger individua così tre forme di deiezione: la chiacchera, l'equivoco e la curiosità. Se l'autenticità consiste nel fatto che l'Esserci sceglie e attua la possibilità che gli è più propria, ossia se stesso, l'inautenticità consiste invece nel fatto che egli si pone sul piano della semplice presenza, perdendosi nell'impersonale, nel Si del "si dice". Per comprendere l'essere quotidiano, dice Heidegger, bisogna tenere presente che l'essere gettato nel mondo è dominato dal Si impersonale. La prima forma di inautenticità presa in esame è la chiacchera. Heidegger mostra che ciò che conta in essa è che si discorra. Nella chiacchera il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il suo rapporto originario con l'ente di cui discorre. Ciò che la chiacchera veicola è dunque la perpetuazione di se stessa e non una qualche originaria appropriazione dell'ente di cui si parla. La fondatezza di ciò che viene detto nella chiacchera consiste nel fatto che così si dice, che lo dicono tutti. Essa non nasce da un inganno voluto, piuttosto è il frutto di un dire e ridire. La ripetizione porta al ribaltamento dell'apertura del dire nella chiusura del giudizio irrevocabile della chiacchera. La chiacchera è infatti chiusa al riesame e alla discussione: contro il"si dice" non c'è appello, il Si impersonale ha una grande forza. L'Esserci, nella chiacchera, rimane tagliato fuori da un rapporto originario e genuino con il mondo ed è propria questa condizione che gli rende difficile capire il proprio stato: una situazione di drammatica infondatezza e inconsistenza che giustifica se stessa e tende a precludersi la reale possibilità di un cambiamento.

La seconda forma di inautenticità che Essere e tempo prende in esame è la curiosità. Essa è un vedere fine a se stesso, non aperto a un autentico prendersi cura di ciò che è visto. La curiosità è contraddistinta dall'incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. Secondo Heidegger essa è irrequietezza. Nella ricerca ricorrente della novità fine a se stessa, la curiosità trova la propria distrazione. Perciò la curiosità è ben diversa dalla meraviglia suscitata da ciò che non si conosce. Secondo Heidegger mentre la meraviglia apre a un conoscere autentico, la curiosità è frivola: cerca di sapere, ma solo per il gusto di farlo. La chiacchera, aggiunge Heidegger, fa da guida alla curiosità, indicandole che cosa si deve vedere e leggere.

Infine, la terza forma di inautenticità è l'equivoco. Esso si fonda su informazioni incerte, di seconda mano, sul sentito dire, sulla chiacchera, e alimenta la superficiale curiosità. L'equivoco finisce così con il dare importanza al parlare in luogo del fare e il presentimento curioso in luogo della realtà. Nell'inautenticità, la parola sostituisce l'azione, perché, per perpetuarsi, l'equivoco, la curiosità e la chiacchera temono che si realizzi l'oggetto del loro parlare. Quando ciò succede, l'essere inautentico si stizzisce perché, oltre alla magra consolazione di aver previsto un certo avvenimento e la sua realizzazione, non può più nutrire ancora la chiacchera. L'inquietudine della chiacchera porterà però a nuovi equivoci. Nell'essere-insieme dominato dalla chiacchera, ognuno controlla l'altro per vedere come si comporta e che cosa se ne può chiaccherare. Secondo Heidegger l'essere insieme inautentico non è dominato da indifferenza ed estraneità, quanto piuttosto da un sorvegliarsi reciproco, per cui sotto la maschera dell'essere-l'uno-per-l'altro domina l'essere-l'uno-contro-l'altro.

Heidegger chiarisce che la sua analisi dell'inautenticità non ha alcun intento morale, ma vuole essere un'indagine ontologica, anche se è difficile leggere le sue riflessioni senza trarne conclusioni sulla preferibilità etica dell'autenticità. Ad ogni modo, l'inautenticità (la deiezione sul piano delle cose), non significa che l'Esserci perde il proprio essere, diventando un non-essere-più-nel mondo. La deiezione, secondo Heidegger, non è nemmeno uno stato di caduta da una condizione originale pura, ma un modo preciso di essere-nel mondo nel quale l'Esserci è completamente immerso nel mondo. La deiezione, quindi, per Heidegger non è la faccia notturna dell'Esserci, è piuttosto una sua struttura ontologica essenziale che riempie la quotidianità dell'Esserci, finendo per diventare normalità. Per capire le ragioni profonde della deiezione, bisogna capire il ruolo dell'angoscia nel pensiero di Heidegger.


L'angoscia.


Per comprendere la natura dell'angoscia, Heidegger la confronta con la paura. Si tratta di due esperienze che spesso vengono confuse. In realtà, afferma Heidegger, esse sono ben diverse: mentre la paura è il frutto della minaccia di un ente nel mondo, l'angoscia è suscitata dall'essere-nel-mondo come tale. L'angoscia può sorgere dalla più serena delle situazioni. Essa non è suscitata da un qualche essere determinato, collocato in un tempo e in un luogo. Si ha paura di qualcosa, mentre non vi è una qualche specifica cosa che provoca l'angoscia: in questo sta il suo carattere spaesante. L'angoscia è originata dalla presa di coscienza dell'inconsistenza delle cose, della loro irrilevanza, del fatto che il nulla è a fondamento di ogni cosa. Se l'inautenticità mette l'Esserci a suo agio, crea un'immedesimazione deiettiva col mondo, l'angoscia fa invece sì che l'Esserci non si senta a casa propria. Si capisce allora perché l'Esserci fugge nella deiezione, tranquillizzante per la forza del Si impersonale e per la continua distrazione garantita dall'irrequietezza della chiacchera. Quella tranquillità è però minacciata continuamente dallo spaesamento, spesso per lo più latente, che rode l'Esserci in maniera costante. Nell'angoscia, sostiene Heidegger, il mondo si rivela per quello che è veramente, per il suo non aver nulla da offrire. Ciò che nella deiezione occupa l'Esserci, attraverso l'angoscia si rivela come privo di significato, perde di importanza. L'angoscia mostra all'Esserci che in fin dei conti è isolato: in questo senso Heidegger afferma la sua solitudine esistenziale. Nell'angoscia l'Esserci capisce di doversi comprendere in altro modo che a partire dal mondo, comprende il proprio originale distacco dalle cose e anche di consistere nell'essere-libero-per, nell'essere progettualità autentica, progettualità vissuta nella prospettiva dell'essere per la morte. L'angoscia ha perciò una funzione catartica in quanto mostra all'Esserci la possibilità dell'autenticità. Perché ciò avvenga è però necessaria una decisione dell'Esserci. Heidegger afferma che: "L'angoscia può sorgere autenticamente solo in un Esserci deciso. Chi ha deciso non conosce la possibilità della paura, ma afferra l'angoscia come una tonalità emotiva che non lo paralizza e non lo sconvolge. L'angoscia lo affranca dalle possibilità nulle e lo rende libero per le autentiche". 


L'Esserci come Cura.


Abbiamo già visto in precedenza il ruolo del prendersi cura e dell'aver cura degli altri. Per Heidegger la Cura (Sorge), deve essere intesa in modo positivo come attenzione, premura, ma anche in termini meno positivi come preoccupazione, timore. La vita, secondo Heidegger, è dominata dalla Cura, che caratterizza l'Esserci in quanto essere-nel-mondo. L'Esserci manca sempre di qualcosa, e ciò lo spinge in avanti nel tentativo di realizzare i propri progetti: in questo senso l'Esserci viene definito da Heidegger come esser-avanti-a-sé. L'ente che è immediatamente disponibile, che é utilizzabile, serve per realizzare i progetti dell'Esserci: nella misura in cui l'Esserci è presso le cose e si prende cura di esse, egli è progettualità. La progettualità e l'essere-per caratterizzano l'Esserci come Cura. La progettualità, l'essere-per dell'Esserci mostra l'Esserci come temporalità e per spiegarlo Heidegger ricorre a una favola:

"La Cura, mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po' e incominciò a dargli forma. Mentre è intenta a stabilire cosa abbia fatto, interviene Giove. La Cura lo pregò di infondere lo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsentì volentieri. Ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura e Giove disputavano sul nome, intervenne anche la Terra, reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché aveva dato ad esso una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice. Il quale comunicò ai contendenti la seguente giusta decisione:"Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché é fatto di humus (Terra)".

Nella favola a Saturno spetta la decisione intorno alla natura dell'ente oggetto della contesa. La Cura ha formato l'uomo e perciò, decide Saturno, ha il compito di possederlo finché vive. Heidegger sottolinea che é proprio Saturno, il Tempo, a decidere. Infatti l'essere presso le cose e la progettualità, l'essere-avanti-a-sè, ci sono perché l'Esserci é temporalità.


La temporalità.


Heidegger definisce l'avvenire, l'essere stato e il presente come le estasi della temporalità. Il termine estasi significa in senso etimologico essere fuori di sé. L'esistenza dell'Esserci é infatti un ex-sistere, uno stare fuori, caratterizzato dalla progettazione e proiettato verso la decisione. Nel tempo, l'Esserci é fuori di sé, é gettato tra le cose, é un essere nel mondo. L'Esserci gettato si prende cura delle cose, immagina come esse saranno in futuro e su questa base fa progetti. È così possibile notare come, per Heidegger, tra le varie estasi, quella originaria é il futuro. La Cura, infatti, si proietta fuori di sé, verso il futuro, per realizzare, in modo autentico o inautentico, la propria progettualità. L'Esserci si proietta in avanti in vista di se stesso e, nella misura in cui si disperde presso ciò di cui si prende cura, egli perde il suo tempo. L'esistere inautentico, cioè incapace di decidersi per l'autenticità, perde costantemente il suo tempo e quindi non ne ha mai; l'esistere autentico, al contrario, è deciso e quindi ha sempre tempo. Secondo Heidegger a seconda di come l'Esserci si pone, abbiamo un tempo inautentico o autentico: nel primo caso l'Esserci, gettato nel mondo, é travolto e si lascia travolgere dal piano ontico, utilizzabile, dalle cose del mondo che riescono a distrarlo nella curiosità fatua, nella chiacchiera superficiale e nell'equivoco; nel secondo caso, invece, il tempo autentico dell'Esserci consiste nel vivere con il distacco di cui l'angoscia lo rende capace. Heidegger sostiene però che non si tratta in questo caso di un allontanarsi dal mondo, ma di un modo diverso di essere nel mondo, l'Esserci autentico infatti abbraccia il proprio destino che consiste in un essere-per-la-morte, ama il suo destino e lo fa consapevolmente proprio.


L'essere per la morte.


La morte di cui Heidegger tratta in Essere e tempo non è un fenomeno che si può osservare, il morire degli altri noi non lo possiamo sperimentare e l'unica cosa che noi possiamo fare, dice Heidegger, é essere loro vicini. La morte non è semplicemente qualcosa di constatabile sul piano dell'esistenza, ma è qualcosa che si rivela pienamente nell'Esserci. Essa non è il momento terminale di una storia, ma è un qualcosa che è intimamente legato all'Esserci. L'Esserci infatti ha in sé, afferma Heidegger, un non-ancora che è una mancanza costante. In questa mancanza si rivela la finitezza dell'Esserci, la sua morte. Essa è un modo di essere che l'Esserci assume da quando c'é "l'uomo, appena nato, è già abbastanza vecchio per morire". Egli la definisce come la possibilità della pura e semplice impossibilità dell'Esserci. Si tratta della possibilità più propria, incondizionata e insuperabile. L'Esserci, per il fatto stesso che c'é, si trova gettato in questa possibilità. L'angoscia ha la capacità di mostrare in maniera penetrante all'Esserci la sua condizione di gettatezza nella morte. La deiezione è una fuga dal proprio essere-per-la-morte. Non si tratta, ovviamente, di un prendersi cura di realizzare la morte, perché ciò equivarrebbe al suicidio. L'essere-per-la-morte, piuttosto, è una forma di distacco momentaneo dal possibile. Tale distacco fornisce la prospettiva adatta per comprendere l'esistenza nella sua finitezza. Heidegger chiama l'attesa della morte con l'espressione"anticipazione della possibilità". L'anticipazione della possibilità della morte mostra la finitezza di ogni cosa e mostra all'Esserci il suo essere possibilità. In altre parole, l'anticipazione svela l'inautenticità del Si impersonale e pone l'Esserci davanti all'essere-per-la-morte, che è un sottrarsi radicale, consapevole, angosciato e libero dalla deiezione.


Il tema della morte nella storia del pensiero.


Il tema della morte rappresenta un tema classico della filosofia. Una sua prima importante comparsa si ha nell'idea della filosofia come esercizio di morte, formulata nel Fedone di Platone. Il tema poi ricompare nella filosofia di Epicuro che afferma che non bisogna avere paura della morte perché "quando noi siamo, non c'è la morte, e quando c'è la morte, noi allora non ci siamo" (dalla Lettera a Meneceo, p. 125). Nel Novecento Wittgenstein, riecheggiando il pensiero epicureo, nel suo Tractatus dice: "La morte non é un evento della vita. La morte non si vive" (Tractatus logico-philosophicus, 6.4311). La morte, nelle sue accezioni biologiche, cioè la morte intesa come conclusione dell'esistenza terrena, etiche, cioè il morire al peccato, escatologiche, la morte come inizio di una nuova vita, e oggi bioetiche, ad esempio l'eutanasia, è uno dei grandi misteri sui quali anche il pensiero religioso ha molto riflettuto. In particolare, il tema del morire a se stessi, è un tema classico del Nuovo Testamento; un esempio ne è la parabola del chicco di grano che deve morire per dare frutto, contenuta nel Vangelo di Giovanni dove Gesù dice ancora: "Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita eterna". Agostino da Ippona usa la metafora del morire rispetto al mondo, alla realtà terrena: "l'amore stesso è per noi morte al mondo e vita con Dio. Se infatti parliamo di morte quando l'anima esce dal corpo, perché non si potrebbe parlare di morte quando il nostro amore esce dal mondo? L'amore é dunque potente come la morte" (Commento al Vangelo di S. Giovanni, LXI, 1). È proprio la tradizione cristiana, da lui ben conosciuta in seguito agli studi compiuti negli anni della sua formazione teologica, a influenzare Heidegger sul tema dell'essere-per-la morte. L'allieva preferita e compagna di Heidegger, la filosofa Hannah Arendt, così scrive nella sua dissertazione di dottorato pubblicata nel 1929, due anni dopo Essere e tempo: "Il bene dunque, al quale aspira l'amore, è la vita, e il male, che la paura fugge è la morte. La vita felice é la vita che non può essere perduta. La vita terrestre è una mors vitalis, oppure una vita mortalis; una vita inscritta nella morte. [...] Ove non c'é morte e di conseguenza non c'é futuro, é possibile vivere sine angore cure, cioè senza l'angoscia della preoccupazione. La paura della vita al cospetto della morte é paura di se stessa in quanto vita che deve morire e che come tale permane nel timore" (Il concetto di amore in Agostino, pp. 25-26).