Classi 5°A/B/C Linguistico - Lez. 18
Sulla volontà della natura e i Supplementi.
Schopenhauer frequentemente ricorre alle scienze naturali per portare, come si è visto, argomenti a sostegno delle sue tesi. Nel 1836 pubblica «Sulla volontà della natura», uno scritto in cui raccoglie le osservazioni, basate sugli ultimi progressi delle scienze naturali, che gli sembrano confermare le sue teorie. L'opera si suddivide in capitoli, ognuno dei quali si riferisce ad una scienza particolare: Fisiologia e patologia, Anatomia comparata, Fisiologia vegetale, Magnetismo animale e magia che costituiscono solo alcuni esempi dei titoli che la compongono.
Gli argomenti che Schopenhauer tratta in riferimento alle scienze dell'epoca sono vari e comprendono la spiegazione della gravità, intesa come «conato» o volontà delle cose, la riduzione in campo medico di tutte le forme vitali a volontà inconscia, la corrispondenza tra la struttura scheletrica dei rapaci e il loro istinto predatore, le ricerche sul mesmerismo, sull'ipnotismo e su altre pratiche dell'epoca che avevano una grande diffusione.
L'attenzione di Schopenhauer si sofferma sopratutto sul mesmerismo, a cui si era già interessato Schelling, rifacendosi alle suggestioni che avevano riscosso notevole successo tra il Settecento e l'Ottocento e agli studi condotti da Friedrich Mesmer (1734/1815), medico austriaco, che aveva teorizzato il «magnetismo animale»: Mesmer sosteneva che in ogni essere sia presente un'energia di tipo magnetico, capace di propagarsi da un individuo all'altro, come dimostrano i fenomeni elettrici e magnetici. Sviluppando questa teoria, Mesmer si convince che sia possibile curare le malattie trasmettendo energia magnetica da una persona all'altra, allo scopo di ristabilire gli equilibri dinamici interni del paziente, alterati dalla malattia. La cura consisteva nella semplice imposizione delle mani da parte del medico sulle parti del corpo del paziente interessate dagli squilibri energetici. Il mesmerismo ottiene un grande successo di pubblico, ma anche la condanna da parte della scienza ufficiale, ma aprirà la strada ad ulteriori sviluppi da parte di altri medici e scienziati.
L'idea che le forze psichiche agiscano sui corpi affascina Schopenhauer che le interpreta quale manifestazione della Volontà intesa come forza vitale. Le osservazioni, pubblicate come Supplementi all'edizione del 1844 de Il mondo come volontà e rappresentazione, trattano gli stessi argomenti e utilizzano, almeno in parte, lo stesso materiale dello scritto del 1836.
I temi trattati sono eterogenei e vanno da questioni teoriche alla riflessione sulle scoperte più recenti avvenute nell'ambito delle scienze naturali, sino alla questione sulla sessualità. Nel capitolo XIV, intitolato Sull'associazione di idee, affronta ad esempio il problema dell'inconscio e di come si stabiliscano associazioni di idee che non sono spiegabili in termini razionali. Schopenhauer sottolinea il fatto che il pensiero non agisce sempre a livello cosciente e intenzionale, paragonando le dinamiche inconsce del pensiero ai processi digestivi, che trasformano i cibi in materiale completamente diverso senza che l'individuo se ne accorga: Schopenhauer interpreta tale aspetto come espressione del dominio della Volontà sull'intelletto.
In un altro capitolo, Schopenhauer propone una teoria della generazione pseudoscientifica, secondo la quale, mentre il padre trasmetterebbe ai figli la parte vitale, la Volontà, mentre la madre trasmetterebbe ai figli l'intelletto. I capitoli XLIV e XLV trattano, invece, la sessualità come apportatrice di angoscia e di dolore, al di là dei significati che possono essere attribuiti e ciò porta Schopenhauer a concludere, in polemica con Leibniz, che il nostro è il peggiore dei mondi possibili.
La liberazione della Volontà.
Il volere, secondo Schopenhauer, rappresenta la prima causa dell'infelicità umana, perché ogni volere deriva da una mancanza, e quindi da un dolore, ma anche perché per Schopenhauer il volere chiude l'individuo in se stesso, rendendolo uno strumento inconsapevole della Volontà universale.
La condizione umana è tragica nella misura in cui ciascuno è costretto entro i limiti della propria individualità, vincolato e condizionato dai propri istinti e dalle proprie passioni, dai propri desideri ed egoismi, quindi da tutto ciò che suscita nell'uomo il desiderio. Ecco perché Schopenhauer afferma che il percorso di liberazione dell'uomo richiede che egli si liberi dei limiti della propria individualità e li oltrepassi: soltanto liberandosi da se stessi, verranno annullati tutti i desideri e i motivi che spingono l'uomo a desiderare e che risultano essere, quindi, legati alla volontà.
Se l'esistenza umana è contrassegnata dal dolore e il suo orizzonte finale è la morte, il suicidio, inteso come rinuncia volontaria all'esistenza, sembrerebbe rappresentare la soluzione ideale del problema esistenziale dell'uomo.
Tuttavia Schopenhauer condanna, invece, tale scelta estrema in quanto il suicidio rappresenta soltanto la morte dell'individuo, cioè del fenomeno, ma non toccherebbe in alcun modo la Volontà, cioè il noumeno: per Schopenhauer, infatti, liberarsi dalla volontà significa riuscire a neutralizzarla e sradicarla dall'esistenza umana, annullandone l'influenza, ma ciò è possibile soltanto con un percorso lungo e difficile. Inoltre, Schopenhauer sottolinea l'inutilità di tale scelta che avrebbe come conseguenza soltanto quella di aumentare il carico di sofferenza esistenziale dei sopravvissuti e rappresenterebbe una fuga egoistica e vile dalla Volontà, un abbandono passivo al volere e la rinuncia a qualsiasi lotta o contrapposizione da parte dell'uomo: secondo l'Autore una tale resa degraderebbe ulteriormente la dignità umana e lo renderebbe simile agli altri esseri, privi di qualsiasi consapevolezza del proprio soffrire e, quindi, passivi. Schopenhauer sottolinea che proprio tale consapevolezza da parte dell'uomo lo distingue dagli altri esseri che, pur associati con lui nel dolore e nella morte, non possono in alcun modo sottrarsi a tale destino, mentre l'uomo ha comunque tale possibilità, cioè l'uomo può effettuare delle scelte esistenziali diverse e consapevoli allo scopo di annullare o mitigare tale tragico destino esistenziale.
L'arte.
La prima via di liberazione dalla Volontà, secondo Schopenhauer, è rappresentata dall'arte. Se l'obiettivo dell'uomo è quello di annullare la volontà, in tutte le sue manifestazioni, e giungere a negarla come nolontá o nolhuntas, l'arte permette, attraverso il godimento estetico, la liberazione, per quanto temporanea, dalla propria individualità e dai suoi vincoli. Nella fruizione artistica, infatti, il rapporto tra oggetto e soggetto viene scisso: l'oggetto viene privato delle sue relazioni spaziali, temporali e causali che ne fanno un individuo o fenomeno; il soggetto viene sottratto, per quanto non in via definitiva, al controllo della volontà.
Infatti, da un lato, il soggetto riempie se stesso della cosa contemplata e la vede nella sua essenzialità, come idea, ed in questo atto è un soggetto puro; dall'altro, durante la contemplazione estetica, il soggetto non considera l'oggetto in rapporto alla propria utilità, né in rapporto alle proprie passioni particolari, quindi l'oggetto non viene visto in relazione con un soggetto particolare, inteso come individuo, ma in quanto riferito a un soggetto impersonale.
Per Schopenhauer le diverse arti corrispondono ai vari gradi di oggettivazione della Volontà, secondo una scala progressiva che sale, man mano che l'espressione artistica considerata, si allontana dal proprio contenuto materiale: tanto più grande risulta essere il contenuto materiale dell'espressione artistica, tanto più basso risulterà essere il livello di oggettivazione della Volontà.
Schopenhauer pone sul livello più basso l'architettura, poi la scultura, la pittura, la poesia e, infine, la tragedia, dove si evidenzia al massimo grado il dissidio della Volontà con sé stessa. Schopenhauer riserva però uno spazio particolare alla musica, che distingue dalle altre arti, perché in essa non vi è alcun riferimento al mondo concreto e il suo linguaggio è universale: la musica per Schopenhauer occupa un posto particolare e importante in quanto non costituisce la rappresentazione delle idee, ma della stessa Volontà universale, della quale la musica rappresenta una oggettivazione diretta, allo stesso livello delle idee. Schopenhauer utilizza l'analogia con la musica per descrivere l'universo come Volontà, poiché alle diverse parti della struttura dell'universo corrispondono gli elementi propri della musica: ad esempio il basso fondamentale è la materia, la melodia rappresenta l'organizzazione dell'organismo autocosciente, cioè dell'uomo, ecct. Soltanto nella melodia, infatti, la musica diventa discorso, linguaggio del sentimento e non della ragione.
Il riconoscimento della Volontà e la compassione.
La funzione dell'arte nella liberazione dalla Volontà è svolta in ambito etico dalla compassione che, superando il principio di individuazione, si colloca come seconda via di liberazione dalla Volontà e come sua negazione.
Schopenhauer non pensa che la solidarietà fra gli uomini possa portare ad alcuna speranza di miglioramento positivo del mondo o alla realizzazione di positive attese sociali: gli uomini possono semplicemente affrontare il dolore comune e, condividendolo, renderlo più facilmente sopportabile.
Per Schopenhauer la compassione, cioè il patire con l'altro, implica il superamento della propria individualità allo scopo di sentirsi parte della sofferenza universale. Poiché nella realtà noumenica non esistono singoli individui, in quanto risultano essere annullate le barriere spazio-temporali e ciascun individuo rappresenta un'unica totalità con tutti gli altri, ogni vittima è anche carnefice e il bene si identifica col male all'interno del concetto di giustizia che annulla entrambi i termini. Tutte le azioni, quindi, riguardano tutta l'umanità e non solo gli individui che le compiono o che le subiscono. Tale concezione di giustizia per Schopenhauer non è quindi frutto né di una scelta morale, né dell'iniziativa e della volontà del singolo individuo, ma rappresenta l'espressione di una necessità fredda e impersonale che comprende non soltanto il mondo umano, ma anche quello naturale. Schopenhauer riprende, infatti, la stretta correlazione tra la conoscenza e l'etica rifacendosi al pensiero buddista e alla concezione del mondo che esso esprime: purificarsi dalla propria individualità significa ad un tempo sia cogliere e conoscere l'essenza del mondo, al di là del fenomeno, sia usare tale conoscenza per liberarsi dalla propria individualità e progredire eticamente verso un'ulteriore purificazione. Ma anche la scelta etica per Schopenhauer non può rappresentare una soluzione definitiva al problema del volere dell'uomo, né tanto meno può, da sola, annullare la Volontà cosmica in via definitiva.
L'ascesi e il nulla.
La terza via di liberazione dal dolore e dalla Volontà, è individuata da Schopenhauer nell'ascesi. L'ascesi, secondo il filosofo, dovrebbe portare come risultato al raggiungimento della nolhuntas o non volontà, intesa come l'annullamento di ogni volere e desiderio dell'uomo. La strada per conseguire tale obiettivo è, secondo Schopenhauer, il distacco e la negazione della propria singolarità, in quanto ad essa sono appunto legati bisogni e desideri. Ai motivi, che sono l'espressione dell'individualità e del volere, Schopenhauer sostituisce i quietivi che esprimono non l'affermazione egocentrica dell'individualità, bensì il distacco da sé e dalla vita.
L'ascesi, concezione di difficile definizione per la mentalità occidentale concreta e pratica, viene da Schopenhauer definita come il tentativo reiterato e volontario di negare la Volontà, mediante l'astensione da ogni piacere e la ricerca della mortificazione della propria volontà con tutte le privazioni e le espiazioni possibili, in modo così che lo spirito vinca sul corpo e sulle sue esigenze.
L'itinerario dell'ascesi che Schopenhauer traccia è simile alle vie indicate dal buddismo per il superamento del desiderio: il buddismo, a cui Schopenhauer fa spesso riferimento nella sua opera Il mondo come volontà e rappresentazione, parte dal presupposto che la vita è dolore e che la causa del dolore è il desiderio, cioè l'attaccamento alla vita stessa. La strada per uscire dal desiderio passa attraverso una serie di precetti, che variano nelle diverse scuole, ma concordano su alcuni punti quali:
- la castità, intesa come la completa rimozione del desiderio sessuale;
- l'assoluta povertà, intesa come il distacco dalle cose e dalla brama di possederle;
- la non violenza, intesa come accettazione delle offese e delle umiliazioni quali occasioni per reprimere l'attaccamento verso se stessi;
- l'astensione dalle bevande fermentate, come alcolici e vino, per mantenere costante il controllo della mente sui desideri del corpo;
- il digiuno, inteso come astensione dai cibi e dai loro piaceri allo scopo di mortificare il corpo;
Schopenhauer, riprendendo tali precetti, vi aggiunge nuovi motivi tratti dal l'ascetismo cristiano quali ad esempio la pratica della fustigazione corporale o autoflagellazione e la penitenza.
Il punto di arrivo del percorso di ascesi per il buddismo è il Nirvana, cioè il nulla inteso come la completa rimozione di ogni dolore e la purificazione da ogni desiderio.
Ma il percorso descritto da Schopenhauer si discosta, per alcuni versi, dal sentiero buddista e si innesta nel solco tipico della filosofia occidentale: il nulla, descritto dal filosofo infatti, rappresenta la strada maestra verso il raggiungimento della nolontá, ma si inserisce anche all'interno della cultura e della filosofia classica, sopratutto quella greca, in cui il concetto di nulla si identifica con il non essere, una realtà di difficile definizione razionale che mal si adatta alla concezione parmenidea dell'ontologia quale scienza dell'essere in quanto tale. Tale concezione del nulla non è facilmente identificabile nemmeno con il Nirvana della filosofia orientale: circa lo stato di annullamento della volontà Schopenhauer è ben consapevole di non poterne dare una definizione o descrizione positiva, anche se tale stato è sperimentabile in concreto nella vita reale. Se in via positiva risulta difficile descrivere cosa sia effettivamente la nolontá, dal punto di vista negativo egli descrive tale condizione con il venir meno della volontà e della visione fenomenica del mondo, contraddistinto da diverse individualità contrapposte: scomparendo le dimensioni della spazialità e della temporalità, scompare anche la realtà così come l'uomo la conosce e si ha, di conseguenza, il nulla.
Schopenhauer, comunque, nel tentativo di far comprendere in cosa consista praticamente lo stato di nolontá, fa riferimento alla serenità che traspare dai volti dei personaggi dipinti da Raffaello, un'espressione di pace e di serenità, di appagamento e di quiete che, l'abbandono di ogni volere e desiderio, producono nell'animo umano.
Vengono così a cessare, per coloro che hanno raggiunto tale stato di beatitudine, tutti i diversi gradi di oggettivazione della volontà, così come le distinzioni tra soggetto e oggetto, mentre tutti gli altri uomini continuano ad essere schiavi della volontà di vivere. La possibilità che, con la sconfitta della Volontà, anche da parte di un solo essere, la stessa Volontà risulti essere annullata per tutti gli altri, Schopenhauer non la sviluppa: la soluzione che egli propone non è infatti una soluzione universale, ma esistenziale, legata cioè alla scelta di vita del singolo individuo. Schopenhauer sottolinea infatti come tale stato, inteso come estasi, illuminazione e rapimento, non sia facilmente comunicabile, né generalizzabile e come non se ne possa dare una descrizione positiva: compito della filosofia, secondo il filosofo, è definire tale stato come il superamento della volontà di vivere e dei legami con il mondo, cioè lo può descrivere solo in via negativa, in positivo soltanto l'individuo che sceglie di percorrere tale via può, annullando la propria volontà, sperimentare in concreto tale stato: è appunto per questo motivo che la filosofia di Schopenhauer si caratterizza come filosofia dell'esistenza, nonostante le premesse metafisiche e cosmologiche sulle quali poggia, in quanto esprime una scelta esistenziale individuale e non una necessità puramente metafisica.
I Parerga e paralipomena.
I Parerga e paralipomena portano Schopenhauer al successo popolare che l'autore non aveva raggiunto con «Il mondo come volontà e rappresentazione». Si tratta di un insieme di scritti di carattere divulgativo in cui, rinunciando ad ogni pretesa di sistematicità e di organicità, che trattano di temi diversi. Nonostante sia da molti considerata un'opera minore, Schopenhauer in realtà vi dedica ben sei anni di lavoro, dal 1845 al 1850, pubblicandola nel 1851.
Il primo dei due volumi che compongono l'opera raccoglie saggi di una certa sistematicità, mentre il secondo risulta essere maggiormente frammentario e tratta di argomenti molto eterogenei tra loro.
Tra i saggi contenuti nel primo volume è compreso lo «Schizzo di una storia della teoria dell'ideale e del reale», in cui Schopenhauer delinea una breve storia della filosofia da Cartesio all'Idealismo, dove critica in modo aspro e radicale Hegel e la sua filosofia.
La critica ai filosofi tedeschi dell'Ottocento, da Fichte a Schelling e Hegel, assume toni ancora più accesi nel saggio intitolato «Sulla filosofia delle università», sottolineando come tali filosofi diluiscano i propri pensieri in un mare di parole che disorientano il lettore e lo rendono incapace di pensare in modo autonomo e chiaro. A tali pensatori, Schopenhauer contrappone Kant e al suo pensiero dedica la gran parte dei «Frammenti sulla storia della filosofia», che costituiscono una serie di note che ripercorrono le tappe principali del pensiero filosofico a partire dagli Eleati e da Eraclito. La parte più ampia e nota dei Parerga è costituita dagli «Aforismi sulla saggezza della vita» a cui è affidata la divulgazione del pensiero di Schopenhauer: gli aforismi, riprendendo quelli classici di Eraclito, sono presentati dall'autore come l'avvio all'arte dell'eudemologia, cioè dell'esistenza felice, e ripropongono il contenuto pessimistico della sua opera più importante. In essi viene proposta quale regola suprema di saggezza che il fine della vita non è il piacere, ma l'assenza di dolore, per tale motivo l'uomo non deve trascorrere la propria esistenza nella vana ricerca dei piaceri e della felicità: il fondamento, quindi, di un'esistenza felice, in quanto la vita risulta essere dominata dal destino è, per Schopenhauer, la stabilità, l'uniformitá e l'assenza di rischi. L'uomo, quindi, deve prendere come fondamento sé stesso e non le cose, non deve dipendere da esse: essere fondamento di sé stessi implica anche la solitudine dall'intera società civile. L'affermazione della centralità dell'individuo rispetto alla società, porta Schopenhauer a criticare valori come il nazionalismo, l'onore e la gloria, quali beni illusori, sopratutto se paragonati al valore rappresentato dall'individuo e dalla costruzione della sua dimensione spirituale che, unici, portano alla conoscenza di sé che è la condizione indispensabile per il raggiungimento di quella tranquillità interiore, che per Schopenhauer è l'unica forma possibile di felicità.
Schopenhauer e i due problemi fondamentali dell'etica.
Nel 1841 Schopenhauer pubblica in un unico volume intitolato «I due problemi fondamentali dell'etica», due dissertazioni, «Sulla libertà del volere» e «Il fondamento della morale», con i quali partecipa ai concorsi indetti dall'Accademia Norvegese e da quella Danese.
Nella prima dissertazione Schopenhauer distingue tra la libertà fisica, con cui intende l'assenza di impedimenti, e la libertà intellettuale, cioè la libertà di pensiero, e la libertà morale che è l'oggetto della trattazione. Secondo l'autore la libertà morale comprende la facoltà di agire, intesa come libertà di azione priva di impedimenti, e la facoltà di volere, che pone il vero problema morale, cioè se l'uomo sia davvero libero di volere. Secondo Schopenhauer la volontà esiste in quanto produce l'azione, ma dipende da altri fattori che ne determinano la direzione e il senso. Schopenhauer sostiene che la libertà dell'uomo sarebbe possibile se, in una situazione determinata, fossero possibili due scelte alternative, ma in tal caso il volere sarebbe privo di motivi; poiché però la volontà è sempre determinata da un motivo prevalente, di fatto allora essa non è libera: l'illusione dell'uomo di essere libero è causata dal fatto che egli tende a confondere i desideri con la volontà: mentre i desideri possono essere contrastanti, cioè si possono desiderare cose opposte, la volontà invece non offre all'uomo alternative.
Nella dissertazione «Il fondamento della morale», Schopenhauer si confronta con la morale kantiana, esaminandone due aspetti:
- il concetto di «dovere», che implica sia l'attesa di un premio, sia il timore di una pena, e che rende la morale del dovere non autonoma;
- la regola dell'agire universale, che richiede che l'azione umana possa essere assunta come legge universale, in realtà Schopenhauer la definisce come «egoistica», in quanto funziona come regola positiva solo se ci si considera come ipotetici destinatari dell'azione altrui, ma solo perché non si vuole essere vittime dell'ingiustizia altrui, ma non esiste la preoccupazione di non essere causa di ingiustizia per gli altri.
Per Schopenhauer il vero fondamento della morale è il sentimento di empatia che permette di condividere i dolori degli altri come fossero propri, mentre la gioia degli altri non è condivisibile. La virtù fondamentale è dunque rappresentata soltanto dalla pietà e dalla compassione e per Schopenhauer essa costituisce l'unico fondamento della morale possibile, anche se non spiegabile alla razionalità della mente umana. Schopenhauer nega quindi qualsiasi possibilità di una morale razionale, per poggiare sulla compassione, elemento irrazionale, la via del solo possibile riscatto dell'esistenza umana.
Leopardi e Schopenhauer a confronto.
La riscoperta di Leopardi quale filosofo e autore di testi filosofici, e non solo poeta e letterato, quali lo Zibaldone di pensieri, i Pensieri e le Operette Morali, si deve sopratutto al critico letterario Francesco De Sanctis che, per primo, ha sottolineato l'influenza esercitata da Leopardi su Schopenhauer, che sicuramente ne conosceva le opere, piuttosto che il contrario.
L'importanza filosofica di Leopardi è stata riaffermata con forza anche da Emanuele Severino, critico contemporaneo, che lo inserisce tra i grandi pensatori del nostro tempo.
La natura.
Leopardi condivide con Schopenhauer la concezione circa la marginalità dell'uomo nell'universo, in quanto l'uomo rappresenta un piccolo granello di sabbia rispetto all'immensità spaziale e temporale della natura. Tuttavia l'atteggiamento della natura nei confronti dell'uomo risulta essere profondamente diverso nei due pensatori: mentre nel pensiero di Schopenhauer la natura rappresenta una forza negativa, la Volontà, che è inserita anche all'interno della natura umana e ne determina il continuo desiderio e l'infelicità; per Leopardi, invece, la natura è del tutto indifferente al destino umano, la cui sofferenza non è causata dalla natura cosmica, ma dalla sua psiche, che con la natura non ha niente a che fare, anzi che per molti aspetti le si contrappone. Leopardi, muovendo da una tradizione illuminista, vede la natura secondo un rigido materialismo, governata da leggi necessarie, priva di una qualsiasi finalità sia razionale, che spirituale. Mentre in Schopenhauer l'uomo deve combattere la natura e cercare di annientarne l'influenza sull'uomo e sul cosmo, secondo un finalismo negativo, in Leopardi, invece, la visione della natura è più disincantata: la natura rappresenta infatti un meccanismo autonomo che non si cura dell'uomo nel modo più assoluto, né a fin di bene, né per fargli del male.
Lo stesso appellativo di «matrigna» che Leopardi usa spesso per definire la natura deve essere necessariamente chiarito e sgombrato da ogni ambiguità: la natura non è in alcun modo nemica dell'uomo, in quanto affermare ciò significherebbe attribuire all'uomo un ruolo centrale, per quanto negativo. La natura, invece, per Leopardi, è totalmente indifferente nei confronti dell'uomo in quanto lo considera alla stessa stregua di qualsiasi altro essere vivente: è soltanto l'ambizione dell'uomo che si illude di occupare, all'interno dell'universo, un ruolo più importante che in realtà è solo illusione. Se dal punto di vista scientifico l'uomo rappresenta soltanto una delle tante specie viventi, dal punto di vista del singolo individuo tutto ciò si traduce per Leopardi in una totale assenza di senso e di significato, dove gli interrogativi dell'uomo sul senso della vita sono destinati a rimanere privi di risposta. Così Leopardi sottolinea la condizione umana come tragica, nella sua futilità e insignificanza, sottolineando come l'uomo si trovi «gettato», a sua insaputa, nel mondo, come dirà appunto il filosofo Heidegger.
L'esistenza umana.
L'orizzonte esistenziale delineato da Leopardi è simile per diversi aspetti a quello di Schopenhauer. Leopardi descrive l'uomo come un vecchio misero e inerme, che insegue affannosamente l'unica meta possibile, cioè la morte, concezione che riprende nel «Cantico del gallo silvestre», una delle tante operette morali da lui scritte. Leopardi descrive l'esistenza dell'uomo come il periodo che va «da un nulla a un altro nulla», costellato di sofferenze e desideri che non potranno mai essere pienamente soddisfatti, come anche Schopenhauer aveva affermato. Il desiderio, per entrambi, è descrivibile come mancanza, e la mancanza genera dolore, mentre l'appagamento momentaneo genera noia, una condizione che è peggiore del dolore, e che presto viene soppiantato da un nuovo desiderio, e il ciclo si ripete senza alcuna soluzione di continuità, all'infinito. Anche per Leopardi, quindi, la vita è paragonabile ad un pendolo che oscilla tra il dolore e la noia, proprio come aveva detto Schopenhauer. Nello Zibaldone Leopardi sviluppa una vera e propria teoria del piacere, le cui conclusioni si ritroveranno in molte altre sue opere poetiche. Leopardi dimostra che il desiderio non può essere soddisfatto, poiché non si riferisce alla cosa che è stata desiderata: se così non fosse, l'ottenere la cosa procurerebbe all'uomo la felicità. Leopardi afferma che il desiderio è in realtà indeterminato e infinito e, quindi, destinato a rimanere inappagato. Se il desiderio non può mai essere soddisfatto, allora anche il dolore non potrà mai cessare, contraddistinguendo l'esistenza dell'uomo e costituendone lo stato naturale, mentre il piacere rappresenterà soltanto una breve parentesi tra due dolori. Il piacere, quindi, per i due pensatori, non rappresenta uno stato positivo, ma solo una momentanea cessazione del dolore che, però, se si prolunga, determinerà solo assuefazione e noia. Leopardi però, a differenza di Schopenhauer, indica la speranza e l'attesa quali unici stati positivi dell'esistenza, la poetica della «vigilia del dì di festa», ma anche la speranza è un'illusione destinata a dissolversi al contatto con la realtà.
Il nichilismo.
La mancanza di senso, a livello cosmico ed esistenziale, viene associato al nichilismo di Leopardi.
Se è vero che lo stesso Leopardi precisa nel commento ad un passo del Cantico del gallo silvestre che il nulla rimane comunque l'orizzonte dell'essere, perché ogni cosa tende continuamente al proprio annientamento e il divenire, che domina l'esistenza, è appunto un continuo morire. Pur trattandosi, come dice lo stesso Leopardi, di conclusioni poetiche e non filosofiche, visto che se l'esistenza non ha mai avuto inizio, filosoficamente non può mai aver fine, questa concezione di Leopardi secondo cui il nulla caratterizza l'esistenza, determina un giudizio pesantemente negativo anche sul piano morale: l'esistenza è infatti «nulla» dal punto di vista ontologico e «male» dal punto di vista morale. Il mondo risulta essere segnato dalla sofferenza di tutti gli esseri e si traduce in un pessimismo cosmico simile a quello di Schopenhauer: l'universo non ha alcun scopo, l'essere è male e l'esistenza è nient'altro che dolore e sofferenza.
La poesia.
Se per Leopardi non c'è alcuna via di uscita o di liberazione dal dolore e da un'esistenza priva di significato, al contrario di quanto sostenuto da Schopenhauer, il pessimismo di Leopardi si dimostra ancora più radicale, per certi versi, di quello di Schopenhauer.
Tuttavia per Leopardi l'uomo può trovare motivi di speranza nella solidarietà di tutti gli uomini e nella poesia. La solidarietà è il tema dominante dell'ultima sua poesia, La ginestra, dove Leopardi rivolge l'invito a tutta l'umanità ad unirsi contro il nemico comune, cioè la natura. Tuttavia questo tentativo non rappresenta la soluzione definitiva del disagio esistenziale dell'uomo, in quanto l'umanità non è che un granello di sabbia di fronte all'universo. Il fatto che l'intero universo sia privo di scopo e di significato, la soluzione che Leopardi indica nella Ginestra serve soltanto ad attenuare una sofferenza esistenziale che non può, comunque, mai essere totalmente cancellata.
Una risposta più articolata alle domande esistenziali dell'uomo, secondo Leopardi, può giungere dalla poesia. La poesia ha come compito precipuo non quello di negare o di falsare la verità affermata dalla filosofia, ma di rendere tale verità accettabile dall'uomo. Il potere consolatorio della poesia, così come la sua capacità di rendere più sopportabile un'esistenza negativa e priva di scopo, è basata sull'immaginazione che permette la creazione da parte dell'uomo di piaceri illusori e, all'apparenza infiniti, creando la speranza che essi possano essere soddisfatti. È così Leopardi chiude il circolo del suo pensiero: sono l'illusione e l'attesa a costituire l'unico stato d'animo positivo e la poesia, che è in grado di produrle, presenta una funzione catartica e purificatrice che, pur non potendo guarire l'uomo dal male dell'esistenza, gli permette però di renderla più sopportabile e, quindi, meno amara.