Classi 5°A/B/C Linguistico - Lez. 20
Kierkegaard: dall’angoscia alla fede.
La fede quindi, secondo Kierkegaard, implica un salto, un’uscita dall’etica, e il filosofo spiega tale esigenza dell’uomo come il bisogno di sfuggire all’angoscia. L’angoscia per Kierkegaard non rappresenta per l’uomo una condizione esistenziale originaria, propria della natura umana in quanto tale, ma deriva dalla possibilità del peccato che, entrata nel mondo con Adamo, si rinnova in ogni singolo individuo. Kierkegaard parla appunto di questi argomenti nella sua opera del 1844, intitolata Il concetto dell’angoscia. L’angoscia fa quindi parte dell’uomo, di ogni uomo nel momento in cui prende consapevolezza di sé. È proprio questa la premessa per il salto nella fede: l’uomo, posto di fronte a sé stesso, alla consapevolezza della propria infinita libertà, che Kierkegaard definisce come “sentimento del possibile”. L’angoscia é quindi completa responsabilità del proprio destino che si manifesta come l’aprirsi di infinite possibilità, tra cui anche quella del peccato. Ogni scelta, sul piano del singolo, é irreversibile e non si inserisce all’interno di un ordine razionale come voleva Hegel: l’individuo, secondo Kierkegaard, é solo di fronte alle proprie scelte, é responsabile della propria determinazione, ma nello stesso tempo é insufficiente a se stesso, soprattutto quando prende coscienza del fatto che dalle scelte presenti, poste nell’orizzonte temporale dell’esistenza, può dipendere il proprio destino nell’eternità. L’angoscia é preparazione alla fede e deriva dal peccato: questa é la tesi, apparentemente paradossale, che Kierkegaard espone analizzando il peccato originale e le sue conseguenze. Prima che il peccato entri nel mondo l’uomo vive in uno stato d’innocenza: egli non é un peccatore, in quanto non può scegliere, ma in quanto non può scegliere, egli non é libero e quindi non é un individuo. Egli é anima e corpo, ma non é spirito: il divieto divino dà all’uomo la possibilità di scegliere di infrangerlo; questa libertà suscita nell’uomo l'auto-consapevolezza, in quanto permette che l’uomo si riconosca quale individuo capace di scegliere, cioè in un io. La possibilità di peccare é essenziale perché l’uomo diventi spirito, coscienza, ma allo stesso tempo espone l’uomo all’eventualità della colpa e della dannazione. Per questo l’uomo é un essere paradossale: se non potesse peccare non sarebbe un sé, ma in quanto può peccare é preda dell’angoscia. Kierkegaard descrive questo stato d’animo in una delle sue pagine più note paragonandolo alla vertigine: l’angoscia é la vertigine che ci prende quando guardiamo un abisso, di cui non vediamo i limiti, così come non possiamo vedere o prevedere le conseguenze della libertà. Con la libertà nasce lo spirito, cioè l’autocoscienza, ma anche la consapevolezza di potersi separare dall’eterno con il peccato e la dannazione.
La possibilità del peccato rappresenta, secondo Kierkegaard, quanto di più terribile possa essere immaginato, eppure é indispensabile per diventare individui. E’ una contraddizione che non si può sciogliere in modo hegeliano, che rimane insolubile, che genera angoscia e che apre l’individuo, il singolo appunto, alla possibilità della fede.
Il merito di Kierkegaard è quello di aver introdotto nella riflessione filosofica il tema dell’angoscia che sarà ripreso dagli esistenzialisti nel Novecento. Un artista che ha cercato di esprimere in immagini questa dimensione dell’animo umano è il pittore norvegese Edward Munch (1863/1944).
L’angoscia si differenzia dalla paura: mentre la paura ha sempre una causa, l’angoscia non ha una causa ben definita; é una dimensione dell’anima apparentemente immotivata, una disperazione senza motivo, un dolore che sembra nascere dal semplice esistere. Il pittore Munch ha espresso questa condizione esistenziale nel suo celebre dipinto intitolato L’urlo. Il soggetto é ispirato a un episodio della vita reale che l’artista ricorda in questi termini: “Camminavo lungo una strada con due amici, quando il sole tramontò. Il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di terrore. Sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura”. Sebbene l’angoscia sia una dimensione privata dell’animo, Munch ne ha anche esaminato le conseguenze sul piano sociale, dando forma pittorica a ciò che Kierkegaard (e più tardi Heidegger) chiamano “forme inautentiche di vita”. I personaggi che affollano le sue scene di vita cittadina sembrano essere del tutto innaturali, sia per le forme, sia per il colore dei volti: fra di loro nessuna comunicazione sembra possibile. Il riferimento alla concezione del bello in Kant è qui evidente e in modo particolare al sublime intesa quale manifestazione della grandiosità della natura nelle sue diverse manifestazioni: terremoti, maremoti, uragani, eruzioni vulcaniche, ecc. Queste manifestazioni naturali che schiacciano l’uomo con la loro bellezza, ma che anche lo terrorizzano, facendolo sentire debole e inerme di fronte alla natura, richiamano lo stesso sgomento che sia Kierkegaard dal punto di vista filosofico, che Munch da quello artistico, cercano entrambi di rappresentare. E’ appunto il senso schiacciante di inferiorità che l’uomo prova, unita alla consapevolezza della propria fragilità esistenziale, che genera l’angoscia, rappresentata come un urlo lacerante e silenzioso da Munch, come una disintegrazione delle false sicurezze umane che si infrangono dinanzi alle infinite possibilità di scelta e che si dissolvono quando la scelta si compie, disegnando l’esistenza dell’uomo come un percorso di non ritorno, di ineluttabile cristallizzazione dell’esistenza all’interno di un lungo e interminabile istante che si protrae all’infinito e al quale l’uomo non può sottrarsi. Ecco perché Kierkegaard individua proprio nel salto nel buio, nella fede, in una scelta non razionale, l’unica via d’uscita per l’uomo dall’angoscia.
La disperazione come malattia mortale.
Il primo momento della coscienza di sé produce la disperazione, che rappresenta una categoria fondamentale per capire la filosofia di Kierkegaard. La disperazione, infatti, rappresenta uno stato esistenziale insito nella natura umana, alla cui trattazione é dedicata l’opera La malattia mortale del 1849, che Kierkegaard firma con lo pseudonimo di Anti-Climacus. La fede occupa in quest’opera un ruolo centrale e viene indicata come l’unica via possibile, anche se paradossale, dalla contraddizione irrisolta che è l’esistenza del singolo. Infatti il singolo, in quanto io, è eterno, ma non é eterno di per sé, bensì soltanto in rapporto a Dio. Ora, senza la fede, l’eternità nel singolo diventa un paradosso e lo getta nella disperazione, perché é qualcosa di fronte a cui l’individuo si avverte come inadeguato. Un io immortale e al tempo stesso peccatore non può che vivere il proprio peccato come una morte, che tuttavia non é il nulla, non é una liberazione, ma é la proiezione della morte stessa nell’eternità, è un morire in eterno. La disperazione, secondo Kierkegaard, non é malattia mortale per il fatto che conduce alla morte, perché in questo senso la morte sarebbe la fine della malattia e, per certi versi, sarebbe quasi una liberazione. La disperazione che sorge dal rapporto del singolo con sé stesso, a differenza dell’angoscia che si riferisce al rapporto tra l’individuo e il mondo, rappresenta il vivere la morte dell’io, avvertire sé stesso come insufficiente e non potere comunque andare oltre sé stesso. La metafora del moribondo che vive un’eterna agonia descrive bene questo stato di coscienza e di impotenza, di una consapevolezza dell’io e allo stesso tempo della sua impossibilità a realizzarsi. L’ “assenza della speranza di poter morire” rappresenta proprio l’impossibilità di oltrepassare sé stessi, di poter superare una realtà precaria, una continua agonia, una mancanza. La disperazione è voler essere autosufficienti, ma sapere anche di non poterlo essere. L’unica soluzione é accettare la disperazione stessa, volerla, negandosi come autosufficienza per sentire la propria dipendenza da Dio. Quindi per Kierkegaard la disperazione é positiva in quanto lascia una sola via d’uscita, la fede, e costringe a cercarla.
Se quindi l’angoscia riguarda il rapporto dell’uomo con il mondo e nasce dinanzi alle infinite possibilità dell’esperienza, compresa quella del peccato, é cioè sentimento del possibile, la disperazione riguarda il rapporto dell’uomo con sé stesso e nasce invece dal saper accettare sé stessi in rapporto a Dio, dal prendere coscienza di essere insufficienti a sé stessi, ma anche dall’impossibilità di superarsi.
Dalla disperazione alla fede.
Secondo Kierkegaard rapportarsi a Dio potenzia enormemente la consapevolezza di sé, ma al tempo stesso anche quella del proprio peccato. La disperazione che ne segue può essere accettata solo con il salto nella fede. Il peccato aveva reso incolmabile la distanza tra l’uomo e Dio e con il cristianesimo, che si pone come paradosso, come irrazionale, perché ha come fondamento l’incarnazione, un Dio che si fa uomo per salvare ogni singolo individuo, Dio si é calato nella finitezza e nel tempo, diventando così contemporaneo dell’uomo. Il salto nella fede rappresenta l’incontro, sul piano esistenziale, con Cristo. La religione per Kierkegaard ha senso solo come scelta sul piano esistenziale e personale, anzi é condizione per la costruzione stessa dell’individualità. Nonostante tutto ciò la fede non può essere giustificata né dalla ragione, né dalla logica. La fede infatti, secondo Kierkegaard é un salto mortale, una scelta che l’uomo fa per superare la disperazione, una scelta motivata unicamente dal fatto che la fede é avvertita come una risposta alle proprie contraddizioni, alla contraddittorietà del proprio essere.
Il cristianesimo come paradosso e come scandalo.
Il Dittico del cristianesimo comprende, oltre a La malattia mortale, L’Esercizio del cristianesimo, anch’esso firmato con lo pseudonimo di Anti-Climacus. Scritto nel 1850, è l’ultima delle opere pseudonime; infatti i Discorsi edificanti, che sono ad esse successivi, sono firmati da Kierkegaard con il suo vero nome. La seconda delle tre parti che lo compongono è dedicata all’analisi dello scandalo inteso come categoria, cioè come concetto in base al quale ordinare e interpretare l’esperienza, in questo caso religiosa, dell’uomo. Lo scandalo del cristianesimo consiste nell’unione di Dio, mediante l’incarnazione, con ogni singolo individuo. Secondo Kierkegaard l’accettazione del cristianesimo e dell’incarnazione significa far entrare Dio nella vita di ogni uomo, costringendolo a pensare la sua intera esistenza in termini nuovi e secondo nuove categorie. Nella terza parte di L’esercizio del cristianesimo ricorre la frase: “Dall’alto egli attirerà tutti a sé” da un versetto del Vangelo di Giovanni. Il significato di questo monito é che il cristianesimo deve essere inteso come una trasfigurazione della vita, un allontanamento dal mondo per andare verso Cristo, dimenticando tutto ciò che lega alle cose terrene. In nome di un cristianesimo vissuto, Kierkegaard critica la Chiesa trionfante, la Chiesa istituzionalizzata, il cristianesimo inteso come abitudine e come semplice appendice a una vita che non ne é però trasformata. Nel pensiero di Kierkegaard il cristianesimo é piuttosto un’esperienza esistenziale profonda, che coinvolge la totalità dell’individuo. A questo tema sono dedicati i Discorsi edificanti, che tuttavia non hanno avuto sul piano filosofico un’influenza paragonabile a quella degli scritti precedenti. Tuttavia essi hanno costituito un punto di riferimento importante per la teologia protestante del Novecento ed é significativo che siano gli unici scritti firmati da Kierkegaard con il suo vero nome. Nel gioco dei diversi pseudonimi, a cui egli da tanta importanza, é come se avesse voluto tentare varie possibilità di riflessione partendo da punti di vista diversi, per affidare infine a questo scritto l’espressione più autentica del suo pensiero.
Kierkegaard e la polemica con la Chiesa danese.
Kierkegaard dà grande importanza alla dimensione interiore della religiosità, secondo una concezione tipicamente di stampo agostiniano, e si pone in aperto contrasto con la gerarchia ecclesiastica e con la religione istituzionale del proprio tempo. Il rapporto con il vescovo Mynster, capo della Chiesa luterana danese, é conflittuale senza tuttavia giungere mai a una vera e propria rottura. Kierkegaard gli rimprovera i compromessi con il potere politico. Egli vorrebbe un cristianesimo rigoroso, che costituisca il centro dell’esistenza dei fedeli e della loro coscienza, piuttosto che un insieme di pratiche esteriori e di accordi con lo Stato, visto che in Danimarca il cristianesimo é la religione ufficiale. Secondo Kierkegaard Mynster commette lo stesso errore di Hegel: cerca di conciliare il cristianesimo con la società, mentre il cristianesimo é, nella sua essenza, scandalo e paradosso. Secondo Kierkegaard infatti il cristianesimo non va spiegato o capito, ma vissuto, e deve diventare il cuore dell’esistenza del credente. Dopo il ’48 Mynster mostra inoltre anche qualche apertura verso le nuove istanze democratiche, profondamente rifiutate da Kierkegaard, aumentando così le ragioni del contrasto. La polemica con la Chiesa ufficiale diventa scontro aperto nel 1854 quando, dopo la morte di Mynster, gli succede come capo della Chiesa danese il vescovo Martensen, un teologo di formazione hegeliana. Kierkegaard fonda una rivista, “Il momento” e scriverà personalmente tutti gli articoli dei nove fascicoli pubblicati, dalle cui pagine attacca le posizioni di Martensen, ma soprattutto la collusione della Chiesa con lo Stato, il cristianesimo di facciata disposto a conciliarsi con una vita non cristiana, la mancanza di una dimensione interiore che coinvolga totalmente l’esistenza del singolo credente. La sua battaglia viene interrotta dalla morte, nell’imminenza della quale, come ultimo atto di rottura, rifiuta i sacramenti offertigli da un ministro della Chiesa luterana di Stato.