venerdì 22 dicembre 2023

Lezione 34 - Esistenzialismo 3: L’Esistenzialismo italiano e Abbagnano.

Classi 5° A/B/C Linguistico - Lez. 34

La pittura di Soutine e la nausea di Sartre.


Sartre ha descritto con grande efficacia le sensazioni causate dalla nausea. Tale efficacia descrittiva é legata alle modalità espressive di Sartre che privilegiano una descrizione fisiologica e potentemente sensoriale di quello che in realtà é uno stato di vuoto esistenziale. Il pittore francese di origine bielorussa Chaim Soutine (1893-1943), amico di Modigliani, ha raffigurato, con una pittura visionaria ed espressiva, le deformazioni dello spazio fisico di chi é in preda a un'angoscia simile alla nausea, che rende tutto fluttuante e molle. Dal confronto tra i quadri di Soutine e il seguente passo di Sartre: " Fluttuavo, ero stordito nelle nebbie luminose che mi tiravano da ogni parte contemporaneamente. Maddalena fluttuando é venuta a togliermi il soprabito [...] Guardavo le sue grandi guance che si prolungano fino alle orecchie. Nel cavo delle guance, sotto gli zigomi, v'erano due macchie rosa, ben isolate, che sembravano annoiarsi su quella carne povera. Le guance si prolungavano, si prolungavano verso le orecchie [...] Allora la nausea m'ha colto, mi son lasciato cadere sulla panca, non sapevo nemmeno più dove stavo; vedevo girare lentamente i colori attorno a me, avevo voglia di vomitare" (La nausea, p. 32).


Sartre: il dramma teatrale Porta chiusa.


Porta chiusa é un dramma teatrale in atto unico, scandito in cinque scene, scritto da Sarrtre nell'autunno 1943. Esso costituisce un tipico esempio di "teatro di situazione": il motore della storia é costituito dalla situazione in cui si trovano i protagonisti. La prima teatrale viene messa in scena a Parigi il 27 maggio 1944. Il testo, che ha una grande intensità, tra le righe affronta il tema della natura del rapporto intersoggettivo e costituisce l'espressione lucida e tenebrosa del pessimismo di Sartre. Il pensatore francese non tratta in quest'opera temi per lui nuovi, ma riprende in chiave letteraria alcune intuizioni che aveva già svolto nel saggio L'essere e il nulla (1943). Nei suoi lavori successivi ci sarà una svolta: Sartre abbandona il tono disperato di Porta chiusa e, nel suo L'esistenzialismo é un umanismo (1946), presenta l'esistenzialismo in termini di impegno e di responsabilità sociale. I protagonisti del dramma sono Ines, Garcin ed Estella. Il primo ad entrare in scena é Garcin e attraverso di lui lo spettatore é inserito nel luogo in cui il dramma si consuma. Si tratta di una stanza ammobiliata e all'inizio non é chiaro cosa stia succedendo. Lo spettatore é condotto lentamente verso la verità in un crescendo drammatico, reso via via più acuto dall'entrata in scena dei protagonisti, accompagnati dalla figura sinistramente ordinaria del cameriere che, composto il trio, esce definitivamente di scena. I primi motivi di conflitto si avvertono quando arriva Ines nella stanza. Con l'entrata di Estella poi la situazione si stabilizza e si capisce che i tre sono morti e che ciascuno sarà per gli altri lo strumento della pena eterna: sono all'inferno e sono condannati a stare insieme per sempre. Ciascuno si professa inizialmente innocente, ma con il tempo finisce per confessare la propria colpa. Il peso che inquina i loro rapporti, ciò da cui non riescono a staccarsi e che li spinge a cercarsi e a detestarsi é ciò che hanno commesso di terribile quando erano in vita. Si tratta di atti del passato, che ciascuno di loro si porta dentro, perché dipendono strettamente dal modo di essere di ciascuno di loro. Il conflitto tra i protagonisti é uno strano miscuglio di attrazione e repulsione e culmina nella scena in cui la porta si apre. Potrebbero uscire da lì e forse terminare il tormento dello stare insieme, ma decidono di rimanere, ciascuno per le sue ragioni, ciascuno per il suo peccato, sia esso la codardia, un bisogno distorto di essere amati o la malvagità. La porta chiusa di cui parla il titolo non é dunque una barriera fisica che imprigiona, ma il proprio modo di essere, il proprio sguardo sulla realtà che riduce l'altro al proprio progetto. L'assenza di specchi nella stanza, del resto, tormenta i protagonisti che non possono guardarsi da soli e sono perciò condannati a vedersi attraverso gli occhi degli altri. Ciascuno dei protagonisti si sente ridotto, violentato dal progetto che gli altri hanno su di lui, ma allo stesso tempo é protagonista di un proprio progetto sugli altri. Con una scenografia relativamente semplice e con soli quattro personaggi, Sartre riesce a mettere in scena un dramma umano universale, sul suo bisogno di amare, sulla sua volontà di non essere ferito e sulla tentazione sempre viva di crearsi un mondo di illusioni per giustificare la propria miseria. Soprattutto resta impresso il grido di Garcin:"Nessun bisogno di graticole: l'inferno sono gli altri". È un giudizio durissimo e disperato, che non si può fare proprio, ma che ha il merito di far riflettere.


Sartre: dall'individuo al noi collettivo.


I Quaderni per una morale sono stati pubblicati postumi, nel 1983, ma risalgono agli anni 1947-48 e sono quanto resta di un materiale più ampio andato in buona parte perduto. Come spesso capita alle opere incompiute, sono privi di una struttura organica e si possono trovare in essi sia intuizioni folgoranti, sia passi di scarsa attrattiva. Il libro tratta di temi molto eterogenei: la storia, la creazione, la violenza, la preghiera, il rifiuto, la stupidità e lo scacco. I Quaderni ruotano intorno al tentativo di derivare dalle nozioni di altro, di coscienza e di essere, la tesi che la libertà di ognuno é necessariamente implicata in quella di ogni altro. Tuttavia quest'opera non riesce nel suo intento di passare dall'individuo al noi collettivo, tentativo che a Sartre riuscirà solo molto più tardi nella Critica della ragione dialettica del 1960. Nella prefazione di quest'ultima opera Sartre afferma che l'esistenzialismo é stata una reazione al fatto che il marxismo ha esaurito la propria spinta culturale, perché in esso é avvenuta una scissione fra la teoria e la prassi. La teoria per Sartre é stata difesa ad ogni costo dai dirigenti comunisti, per paura che la messa in discussione della teoria minasse l'unità della lotta. Sartre, in modo deciso e a volte caustico, non attacca però il marxismo, ma l'ideologia marxista che ha forzato la realtà all'interno del sistema ideologico e che ha riassorbito l'uomo in un'idea astratta, riprendendo la stessa polemica che si era sviluppata tra Kierkegaard ed Hegel. La ribellione esistenzialista contro la volontà ideologica di sistema non impedisce però a Sartre di salvare sia la lettura marxiana del conflitto come motore della storia, sia il materialismo storico, secondo cui il modo di produzione della vita materiale domina in generale lo sviluppo della vita sociale, politica ed intellettuale. Nella Critica della ragione dialettica, Sartre sviluppa una vera e propria filosofia sociale attraverso un'analisi del fenomeno dei gruppi. Prima di studiare il gruppo, Sartre analizza il tipo di rapporti che spingono il gruppo a costituirsi e che rappresentano sia la conservazione, che il superamento del gruppo stesso: il collettivo. Il collettivo si caratterizza per Sartre come una pluralità di solitudini inserite all'interno di uno stato potenziale di ostilità. I membri del collettivo sono legati tra di loro da rapporti puramente formali ed occasionali, che sono frutto della convivenza quotidiana (aspettando l'autobus, facendo la spesa etc.) che crea quella che Sartre chiama condotta seriale. Si tratta di modi di rapportarsi formali, routinari e impersonali, e di conseguenza alienanti. L'impossibilità di vivere nella serialità porta il singolo alla costituzione del gruppo che è frutto di un'aggregazione libera. I membri del gruppo diventano presto in grado di agire secondo finalità collettive, senza che nessuno possa accampare pretese di autorità sugli altri. Succede però, prima o poi, che l'iniziale momento eroico della fusione venga meno e il gruppo rimanga unito solo grazie al terrore e al dispotismo. La serialità dalla quale si fuggiva entrando nel gruppo ricompare ora nel gruppo stesso e con lei il senso di estraneità. Le analisi di Sartre sono venate da profondo pessimismo. Egli le svolge a partire da alcuni modelli storici ben precisi tra i quali vi è, sopratutto quello della rivoluzione bolscevica.


Camus e il mito di Sisifo.


Albert Camus (1913-60) nel 1936 ottiene il diploma in studi superiori di filosofia con lo scritto Metafisica cristiana e neoplatonismo, dedicato ai rapporti tra ellenismo e cristianesimo. In seguito pubblica diversi romanzi di successo, tra cui Lo straniero (1942) e La peste (1947) e la raccolta di saggi Il mito di Sisifo (1942). Il saggio L'uomo in rivolta (1951) suscita aspre polemiche e porta Camus all'isolamento. Nel 1957 ottiene il premio Nobel per la letteratura. Non é un filosofo nel senso accademico del termine, ma é importante inserirlo nell'esistenzialismo francese come testimonianza della rottura dei confini tra letteratura e filosofia, riprendendo anche in questo senso Kierkegaard le cui opere presentano pensiero e letteratura fortemente legati, piuttosto che saggi accademici. Secondo Camus esistono soltanto due alternative esistenziali per il singolo: la fede e l'ateismo, cioè l'universo religioso o la rivolta. La scelta di Camus é per l'universo della rivolta: si tratta della ribellione, del dire di no. Tra Agostino e Sisifo Camus sceglie Sisifo. A Sisifo Camus dedica un breve saggio che da il nome ad un'intera raccolta. Secondo la leggenda, Sisifo, il più astuto tra i mortali, viene condannato dagli dei a una pena terribile: deve far rotolare senza posa un masso su per un pendio, sino alla cima del monte, per poi ricominciare tutto daccapo, quando la pietra finisce per rotolare giù nell'altro versante. La punizione di Sisifo consiste in un lavoro interminabile e senza speranza, la cui tragicità dipende dalla piena coscienza che l'eroe ha dell'inutilità del lavoro che svolge. La mitologia greca racconta che Sisifo si era macchiato di colpe molto gravi: tradì Giove, imprigionò la Morte mandata per punirlo. In seguito, anche da morto, riuscì ad ingannare gli dei degli inferi. In lui Camus vede l'incarnazione esemplare dell'uomo: "si é già capito che Sisifo é l'eroe assurdo, tanto per la sua passione che per il suo tormento. Il disprezzo per gli dei, l'odio contro la morte e la passione per la vita, gli hanno procurato l'indicibile supplizio, in cui tutto l'essere si adopera per nulla condurre a termine. È il prezzo che bisogna pagare per le passioni della terra" (Il mito di Sisifo, p. 168). 

Sisifo è superiore al proprio destino, secondo Camus, perché non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo. Questo sentimento egli lo può vivere anche nel supplizio quando, dalla cima, dopo aver osservato il masso rotolare a valle, scende per ricominciare nuovamente la sua fatica. Questa discesa può essere gioiosa, afferma Camus, perché il destino di Sisifo gli appartiene: il macigno gli appartiene: la coscienza del proprio destino si accompagna, nell'eroe tragico, all'accettazione. Così, per esempio, un altro eroe tragico, Edipo, al vertice della tragedia, può dire:"io reputo che tutto sia bene". Si tratta di un amor fati capace di donare a Sisifo una gioia silenziosa, secondo Camus, egli é l'eroe che ritrova sempre il proprio fardello e che ha un compito da svolgere, per cui lotta, perché " anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo" (Il mito di Sisifo, p. 172). Il Sisifo di Camus rappresenta il momento più tragico della concezione esistenzialista dell'uomo. Sisifo, condannato, é pienamente consapevole della sua inferiorità nei confronti della divinità, con la quale tuttavia ha cercato di competere con la sua astuzia. Il Sisifo di Camus accetta però la propria condizione con un volontarismo assoluto e, pur di non piegarsi e riconoscere l'umiliazione di essere stato condannato a svolgere un compito inutile e privo di senso, in una rivolta insopprimibile abbraccia fino in fondo l'assurdo della pena inflittagli.


Merleau-Ponty.


Maurice Merleau-Ponty (1908-61) studia alla Scuola Normale Superiore di Parigi. Insegna poi filosofia nei licei. Durante il periodo dell'occupazione nazista partecipa alla Resistenza, nel gruppo "Socialismo e libertà" in cui milita anche Sartre. Insegna all'Università di Lione, alla Sorbona e, dal 1952, al Collegio di Francia e fa parte del comitato direttivo della rivista Le Temps Modernes, insieme a Sartre e Simone de Beauvoir. Tra le opere principali: La struttura del comportamento (1942), Fenomenologia della percezione (1945). Di orientamento socialista, si confronta in modo critico con il marxismo in Umanismo e terrore (1947), Senso e non senso (1948), Le avventure della dialettica (1955). È uscito postumo e incompleto Il visibile e l'invisibile (1964).

Merleau-Ponty é profondamente influenzato dalla filosofia di Husserl, di cui non condivide però l'impostazione cartesiana: egli rifiuta l'opposizione tra anima e corpo, respingendo sia il modello materialista, che quello spiritualista. Rifiutando qualsiasi forma di dualismo antropologico, afferma che lo spirito non utilizza il corpo, come se questo fosse un suo strumento, ma si realizza attraverso di questo. Egli è anche critico riguardo alla distinzione operata da Sartre tra in-sé della coscienza e il per-sé, in quanto vede in tale distinzione una forma di dualismo. L'esistenzialismo è da Merleau-Ponty considerato in termini heideggeriani, come l'espressione dell'essere-nel-mondo. Concetto che chiarisce con l'uso del termine percezione che non riguarda il processo di elaborazione visiva dei dati sensoriali, secondo il significato comune, ma un'apertura originaria, prelinguistica, dell'uomo nei confronti del mondo, dove coscienza e mondo sono così strettamente intrecciati da rendere inutile e artificiale ogni distinzione o dualismo. Ia relazione col mondo da parte dell'individuo quindi non avviene nel pensiero, ma nel corpo e nella sua corporeità: é attraverso il corpo che il soggetto è al centro del mondo. Secondo Merleau-Ponty é il concetto di carne e di corporeità che ci mettono in collegamento con il mondo nella sua concretezza.

Anche Merleau-Ponty, in Fenomenologia della percezione, presenta l'uomo come un essere libero ma, diversamente da Sartre de L'Essere e il nulla, egli non é disposto a parlare per l'uomo di libertà incondizionata. Egli ritiene infatti che la libertà sia inserita in una rete di condizionamenti e di possibilità. Il fatto che l'uomo sia in situazione, afferma Meleau-Ponty, rende impossibile ammettere una libertà assoluta. Inoltre se la situazione da una parte condiziona, non impedisce ma anzi consente alla libertà di esprimersi grazie alla situazione concreta in cui viene esercitata. La libertà si esprime quindi non in senso individualistico, come sosteneva Sartre, ma come un essere-con-gli-altri.


Marcel.


Gabriel Marcel (1889-1973) é il principale esponente dell'esistenzialismo cristiano. Nato a Parigi, di origine ebrea, si converte al cattolicesimo all'età di quarant'anni. Insegna filosofia nei licei, in un primo tempo, poi svolge con successo l'attività di drammaturgo e di critico teatrale. Tra le sue opere principali ci sono Giornale metafisico (1927), Essere e avere (1935), Homo viator (1944), Il mistero dell'essere (1951), L'uomo problematico (1955).

Marcel considera un orribile vocabolo il termine esistenzialista e rifiuta questa etichetta. Solitamente però viene annoverato tra gli esistenzialisti per il carattere personale, diaristico e intimistico delle sue opere e per la sua analisi dell'esistenza umana che Marcel considera l'unico fondamento filosofico valido di una ricerca filosofica che non voglia essere astratta.

Marcel ritiene che l'io e Dio non sono problemi che la ragione umana può indagare facendo uso di processi dimostrativi. Marcel mette in discussione la pretesa del razionalismo di tipo scientifico di ridurre l'essere al verificabile. In realtà, afferma Marcel, Dio, la persona, la fede possono essere indagati con la ragione, anche se non con quella scientifica, attraverso esperienze come l'amore, la fedeltà e la speranza. Egli distingue perciò tra problema e mistero.

Il problema, secondo Marcel, è qualcosa che ė stato oggettivato. Un problema è qualcosa che ci sta di fronte, che sbarra la strada, é qualcosa in cui il pensiero viene a urtare nel corso della ricerca. Quando ci si trova davanti un problema, si tenta di risolverlo sostituendo al disordine che ostacola un certo ordine che soddisfi le proprie esigenze. Con una adeguata tecnica il problema é sempre risolvibile, mentre il mistero trascende per definizione ogni tecnica concepibile. Il mistero é una condizione che non può essere oggettivata: ogni tentativo di ridurre il mistero a una spiegazione razionale, si traduce in un problema che non può essere risolto, visto che il mistero rappresenta un piano di realtà che trascende il piano della razionalità. Un esempio in questo senso é il rapporto dell'individuo con il proprio corpo: noi siamo un tutt'uno con il nostro corpo e non possiamo definirci ne padroni del nostro corpo, ne tanto meno schiavi o proprietari di esso; tutte queste relazioni sono vere tutte insieme, questo vuol dire che ognuna di esse presa isolatamente è falsa, tradisce l'intera verità della situazione. Il mondo contemporaneo, nota Marcel, é dominato dall'avere e dalla tecnica che hanno preso il sopravvento sull'essere. La drammatica alternativa data all'uomo é quella tra avere ed essere: l'uomo crede di poter dominare l'avere, così come nel problema egli domina tutti i fattori in gioco, eppure, secondo Marcel, la situazione finisce per ribaltarsi e l'uomo si trova immancabilmente soggiogato da ciò che possiede. L'uomo deve dunque scegliere: o perdersi nel mondo del possesso e della tecnica, oppure vivere il mistero dell'essere nel quale é immerso. La tecnica, infatti, considera il mondo come un luogo da sfruttare e l'uomo come un suo oggetto. Il desiderio, legato all'avere, brama il possesso, nella frustrazione del non avere. Al contrario, l'uomo può ritrovarsi nell'amore, che consiste nel riconoscersi subordinati a una realtà superiore. La fede si mostra allora una via d'uscita alla disperazione: essa si apre alla rivelazione dell'essere, attraverso il mistero.


L'esistenzialismo italiano.


L'esistenzialismo importato in Italia dalla Germania e dalla Francia ha un crescente successo che lo rende una delle correnti filosofiche dominanti negli anni Quaranta. Esso viene studiato con molta attenzione dagli oppositori dell'idealismo come il personalista Luigi Stefanini e il fenomenologo Enzo Paci, ma soprattutto da Nicola Abbagnano e Luigi Pareyson.


Abbagnano.


Nicola Abbagnano (1901-90), docente di Storia della Filosofia all'università di Torino, di impostazione laica e razionalista, é il primo esponente dell'esistenzialismo in Italia. Fra le sue opere: La struttura dell'esistenza (1939), Introduzione all'esistenzialismo (1942), Storia della filosofia (1946-50), Esistenzialismo positivo (1948), Dizionario della filosofia (1961). I suoi scritti sull'esistenzialismo sono stati raccolti in Scritti esistenzialisti di Nicola Abbagnano (1988).

Abbagnano si accosta all'esistenzialismo fin dagli anni Trenta, finendo con il proporre, però, una propria versione positiva, che offre come alternativa più equilibrata a quelle elaborate dai pensatori tedeschi e francesi. Se la filosofia di Heidegger ha un impianto nichilista, il cui esito é l'angoscia, quella di Jaspers é dominata dall'inspiegabilità della trascendenza e dallo scacco, mentre l'esistenzialismo di Sartre é segnato dalla nausea, Abbagnano invece rompe l'identificazione tra filosofia dell'esistenza e filosofia della crisi, mostrando che quest'ultima non é affatto una necessaria conseguenza della prima. Il fatto che l'uomo sia possibilità significa che di fronte a lui si aprono tanto le vie della deiezione e dell'inautenticità, quanto quelle della realizzazione di sé. L'uomo é possibilità di scelta del proprio destino, ed é un essere alla ricerca della propria realizzazione.

Poiché l'uomo nasce dall'uomo, egli é originariamente disposto alla socialità: egli non basta a se stesso e si apre perciò alla solidarietà umana che costituisce, nell'amore e nell'amicizia, l'orizzonte nel quale egli può realizzarsi con pienezza. Abbagnano contrappone la categoria della possibilità a quella della necessità che, egli afferma, domina invece nell'Idealismo romantico e nel Positivismo dell'Ottocento. La possibilità di realizzarsi deve portare l'uomo, secondo l'autore, a un serrato confronto con la realtà concreta. A partire da quest'esigenza Abbagnano si é avvicinato al pragmatismo americano, cercando di conciliarlo con l'esistenzialismo, in una prospettiva neoilluminista.